Finanza / Opinioni
Niente Def, solo austerità
Il Documento di economia e finanza presentato dal Governo Meloni a inizio aprile è distante dalle cifre vere, non tiene conto delle procedure di infrazione europee e degli effetti delle misure una tantum “spot”. Con l’effetto di ridurre sempre di più il perimetro dello Stato sociale e dare spinta alle privatizzazioni. L’analisi di Alessandro Volpi
Il Documento di economia e finanza (Def) concepito dal Governo Meloni non presenta volutamente alcuna indicazione di natura programmatica ma si limita a replicare i dati previsionali già forniti nell’anno passato, manifestando, in maniera inevitabile, una certa distanza dalla realtà.
La crescita del Prodotto interno lordo (Pil) è infatti ipotizzata all’1% e il rapporto debito/Pil viene valutato al 140%. Si tratta di due stime non del tutto aderenti alla condizione attuale ma che potrebbero essere favorite da una ripresa dell’inflazione più alta di quella che viene, attualmente, immaginata.
Il vero problema deriva invece dalla definizione previsionale di un rapporto deficit/Pil al 4%; un dato, questo sì, chiaramente disallineato rispetto alla realtà per almeno due ragioni. La prima è riconducibile alla natura stessa dell’indicatore che non considera le spese una tantum, essendo un dato tendenziale. La Banca d’Italia fornisce l’indicazione di uno sforamento pari all’8%, quindi doppio rispetto alla stima del Def, inserendo nel conto il complesso della spesa pubblica “straordinaria” che, al di là delle valutazioni del Def, ha bisogno di coperture entro la fine del 2024.
Considerazioni analoghe sono possibili per l’esercizio 2025, rispetto al quale la stima del rapporto deficit/Pil è fissata al 3,4%. Anche in questo caso la stima, presente nel Def, tralascia per intero l’insieme delle una tantum che dovrebbero essere finanziate, alcune delle quali avrebbero dovuto possedere, nelle promesse dell’attuale governo, un carattere strutturale e quindi ricomparire ogni anno, a cominciare dal taglio del cuneo fiscale. Alla luce di ciò sembra ballare una trentina di miliardi di euro che, assai difficilmente, potrà essere coperta solo con la cessazione degli effetti del cosiddetto “Superbonus”, la cui incidenza sul bilancio pubblico, in verità, avrebbe dovuto essersi esaurita già con l’esercizio del 2023.
La seconda ragione di criticità indotta dal rapporto deficit/Pil ha a che fare con l’ormai certa procedura di infrazione europea che sarà comminata dalla Commissione al governo italiano per lo sforamento degli impegni presi in termini di riduzione del disavanzo. Secondo le regole reintrodotte a partire dal primo gennaio del 2024, che segnano la fine della sospensione avviata con la pandemia da Covid-19, lo sforamento impone un impegno obbligatorio da parte italiana della riduzione dello 0,5% del deficit strutturale, che significa un costo per la finanza pubblica di circa 14 miliardi di euro.
Il Governo Meloni, e in particolare il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ha deciso di non inserire questa cifra nelle previsioni del Def, di fatto ignorando un elemento che è invece decisamente assodato e che avrà bisogno di un finanziamento specifico anche perché paiono assai improbabili trattative su tale tema con la Commissione europea.
Dunque il Def che va in Parlamento appare un documento vuoto, irreale, con una distanza siderale dalle cifre vere, e senza una visione; due limiti intrinsecamente legati dal momento che senza affrontare la situazione reale è molto difficile fare programmazione. Anzi, utilizzando i numeri reali, fare programmazioni comporterebbe rivedere in profondità le linee “elettorali” dell’attuale maggioranza perché promettere e in parte realizzare una politica di tagli fiscali, destinata a ridurre le entrate, e finanziare la maggior spesa con il ricorso a un indebitamento con tassi alti determinano una minore disponibilità di risorse pubbliche che, al di là degli inutili rigorismi europei, obbliga a una nuova austerità, di cui la retorica della “destra” si è sempre dichiarata irriducibile avversaria. È probabile che l’esito di queste incongruenze sarà la riduzione del perimetro dello Stato sociale e l’ulteriore spinta alle privatizzazioni.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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