Esteri / Approfondimento
Nel centro di Emergency dove le vittime delle mine tornano a vivere
Negli ultimi 25 anni nel Kurdistan iracheno migliaia di persone hanno perso un arto a causa degli ordigni inesplosi. Nella struttura ricevono gratuitamente la protesi di cui hanno bisogno, fisioterapia e supporto psicologico
C’è una terra dove regna sovrana la complessità. È il Kurdistan iracheno, regione autonoma a maggioranza curda, divisa tra i quattro governatorati di Duhok, Erbil, Halabja e Sulaymaniyya. Un embrione di autodeterminazione da parte del popolo curdo le cui aspirazioni a un’entità statale si scontrano però con le divisioni interne, l’ostilità delle potenze limitrofe (Turchia, Siria e Iran) e quelle del governo centrale di Baghdad, che nel 2017 ha ignorato il risultato del referendum sull’indipendenza che aveva ottenuto il voto favorevole del 93% dei cittadini.
Lo conferma Marco Puntin, country director di Emergency a Sulaymaniyya, capitale dell’omonimo governatorato: “Una regione martoriata prima dalle lotte intestine negli anni Novanta, poi dalla guerra siriana, fino al conflitto con l’Isis, finito nel 2017. Tra le sue conseguenze, la grave crisi economica che colpisce soprattutto le famiglie meno abbienti”. Come se non bastasse -triste eredità delle guerre che si sono susseguite nel Paese, da quella contro l’Iran negli anni Ottanta fino alla recente lotta allo Stato Islamico- l’Iraq è uno dei territori più minati al mondo. Secondo le stime del Landmine and cluster munition monitor è infestato da più di dieci milioni di ordigni disseminati nelle aree dove civili -compresi pastori, rifugiati e tanti bambini- vivono, lavorano e giocano. Negli ultimi 25 anni solo in Kurdistan le mine hanno ucciso circa seimila persone e mutilato moltissime altre.
Il “Teresa rehabilitation and social reintegration centre” di Emergency, attivo dal 1997 a Sulaymaniyah -dedicato a Teresa Sarti Strada- è nato per restituire la vita a chi ha subito l’amputazione di un braccio o di una gamba. “Il centro -spiega Puntin- è gratuito ed è specializzato in protesi per la sostituzione degli arti e ortesi, apparecchi correttivi a supporto di una funzione. Si prende cura di amputati a causa delle mine ma anche di persone che hanno bisogno di un intervento per altri motivi”.
Non è stata una mina, ad esempio, a rendere Sergul disabile ma la poliomielite che a due anni le ha colpito la gamba destra. “Nel 1997 lavoravo nel dipartimento di contabilità del ministero della Salute -racconta- ed ero volontaria dell’organizzazione che riunisce le persone con disabilità in Kurdistan. Un giorno ho sentito parlare dell’apertura di un nuovo centro che non solo avrebbe curato pazienti con diverse disabilità ma sarebbe stato gestito in parte da persone nelle mie condizioni”. Un’idea allora rivoluzionaria che spinge Sergul a presentare una candidatura. “Ho iniziato come addetta alla reception ma poco tempo dopo sono stata assegnata alla posizione di ortho officer. Ormai il centro è diventato la mia seconda casa”.
Molti tra coloro che lavorano al centro sono stati pazienti, a conferma dell’importanza dell’empatia. “So bene quanto sia importante mettersi nei loro panni e comprendere il loro dolore -continua Sergul- ma allo stesso tempo sostenerli e fare loro da guida. Il mio lavoro comprende il coordinamento tra pazienti e tecnici, la valutazione psicologica delle persone che prendiamo in carico e un sostegno emotivo e fisico per aiutarli ad accettare la loro nuova vita. Cerco di dare importanza alla mia relazione con il paziente per incoraggiarlo e rafforzare la sua volontà di superare questa fase difficile e arrivare a costruire qualcosa di nuovo”.
La comprensione del loro dolore è fondamentale: “Si fideranno di noi se riusciamo a fargli capire che conosciamo quello che stanno passando. Solo così è possibile costruire una relazione -continua la donna-. Potrei raccontare molte storie in cui la mia disabilità mi ha aiutato e ha fatto da ‘ponte’. Pochi giorni fa, ad esempio, è arrivata una donna che piangeva disperata e si sentiva l’unica persona al mondo con quel problema. Per farla sentire meglio è bastato mostrarle la mia gamba e il supporto che mi dava l’ortesi: ha subito smesso di piangere e ha iniziato a farmi domande. È un esempio di come la mia disabilità paradossalmente possa aiutarmi. Se molti pazienti arrivano da tutte le città dell’Iraq lontane anche centinaia di chilometri e dall’Iran, non è solo per il nostro supporto ‘tecnico’ ma proprio per il forte rapporto che costruiamo con loro fin dalla loro prima visita e che li aiuta a sperare ancora”.
“Si fideranno di noi se riusciamo a fargli capire che conosciamo quello che stanno passando. Solo così è possibile costruire una relazione con i pazienti” – Sergul
Oggi il centro è interamente gestito da staff locale, oltre 60 persone, di cui una forte componente femminile, in particolare giovani specialiste che studiano e realizzano protesi e ortesi. “Piedi, mani, braccia, gambe sopra e sotto il ginocchio: 650-700 al mese”, spiega Puntin. Dopo aver fatto un calco del moncherino, in modo da adattarla perfettamente, inizia il lavoro di fisioterapia, che coinvolge anche i parenti, a cui viene insegnato a gestire un disabile in casa. In totale sono oltre 14mila le protesi applicate e 63.400 i trattamenti di fisioterapia.
“Il nostro approccio -conclude Marco Puntin- non si limita al supporto immediato, ovvero la fornitura degli ausili e l’intervento fisioterapico. Ma comprende l’ospitalità dei parenti, sempre free of charge, e soprattutto il social reintegration programme. Chi, assieme al braccio o alla gamba, ha perso anche il lavoro ha potuto seguire dei workshop per imparare a svolgerne uno nuovo, compatibile con la propria condizione, come il sarto, il fabbro o il negoziante e riacquistare la dignità personale e sociale che la guerra gli aveva sottratto”. Sebbene oggi sia sospeso per carenza di fondi, in questi anni l’income generation programme ha contribuito ad avviare circa 400 cooperative nei villaggi circostanti.
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