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Diritti / Reportage

Mine e ordigni inesplosi minacciano gli abitanti del Kurdistan iracheno

Due donne in attesa di accedere al “Teresa rehabilitation and social reintegration centre” gestito da Emergency a Sulaymaniyya © Teba Sadiq

Le guerre che dagli anni Sessanta si sono succedute nella regione hanno lasciato una pesante eredita ed è la popolazione civile a pagare il prezzo più alto. E i bombardamenti della Turchia rendono ancora più grave la situazione

Tratto da Altreconomia 266 — Gennaio 2024

“Anche quel giorno, come sempre, ero con il mio gregge. Gli animali stavano pascolando tranquillamente, quando a un certo punto una pecora è saltata su una mina. Io ero poco distante, per fortuna sono rimasto illeso”. Il racconto di Rezan Murad, uno degli abitanti del villaggio di Parkh a pochi chilometri a Nord di Sulaymaniyah, è tristemente simile a tanti altri che si possono ascoltare parlando con gli abitanti del Kurdistan iracheno. La regione settentrionale dell’Iraq è infestata da mine, mortai, parti di bomba a grappolo, missili e altri ordigni inesplosi che si sono accumulati nel corso dei decenni, mentre il Paese più in generale è tra quelli con il maggior numero di mine al mondo. A queste vanno aggiunti gli altri ordigni rimasti sul terreno dopo decenni di guerre, tra cui gli esplosivi improvvisati realizzati dall’Isis tra il 2014 e il 2017 e le bombe sganciate ancora oggi dalla Turchia.

“Parliamo di strati e strati di contaminazione”, spiega Saalam Muhammed, responsabile tecnico di Mag una delle Ong che si occupa di bonificare i terreni dell’area. “Tra gli anni Sessanta e Settanta l’esercito iracheno ha cercato di sopprimere la rivolta curda -continua-. La regione è stata bombardata, sono state costruite postazioni militari e piantate mine a loro difesa. Negli anni Ottanta abbiamo avuto la guerra con l’Iran, poi le due del Golfo e infine, nel 2014, è arrivato l’Isis”. Ogni conflitto ha portato con sé la sua dote di esplosivi, lasciando alla popolazione civile una pesante eredità.

Vivere in un Paese altamente contaminato vuol dire confrontarsi ogni giorno con il rischio di perdere la vita o di vedere un proprio caro non fare più ritorno a casa. Come nel caso di Said Abdulkhader: suo fratello era andato nei campi intorno al loro villaggio, a Wlyawa, per raccogliere delle erbe quando è saltato su un ordigno. I suoi familiari hanno sentito il rumore dell’esplosione, ma quando sono arrivati sul luogo dell’incidente non c’era più nulla da fare. Era il dicembre del 1991. Ventisette anni dopo gli operatori della Mag, intenti a sminare l’area, hanno trovato e restituito a Said l’orologio che lui stesso aveva regalato al fratello. Le lancette erano ferme alle 14 e 20.

“Ho visto tantissime persone morire a causa di un ordigno nel distretto di Penjwin, al confine con l’Iran”, racconta Saalam Muhammed, mentre indica un punto a Nord-Ovest sulla cartina appesa nel suo ufficio del centro di addestramento di Chamchamal. Sulla mappa sono segnate tutte le aree in cui Mag opera e Penjwin è ancora una di quelle.

“Mi sono unito all’organizzazione nel 1992 per aiutare il mio Paese, ma dopo trent’anni c’è ancora molto da fare”. Ufficialmente, l’Iraq dovrebbe liberarsi dal pericolo degli ordigni esplosivi entro il 2028, ma si tratta di un risultato impossibile da raggiungere con le risorse attuali.

“Ora che il terreno è libero non devo più andare in un altro villaggio per lavorare. Posso coltivare la mia terra e pensare seriamente a mettere su famiglia” – Sedar Muhammad

Intanto però il lavoro della Mag sta dando i suoi frutti. Il villaggio dove vive Rezan Murad è stato bonificato e gli abitanti sono tornati a coltivare le terre e a pascolare le greggi senza timore di perdere la vita, riappropriandosi di quei monti del Nord del Kurdistan che per troppo tempo avevano rappresentato una minaccia di morte.

Lungo la strada che collega Sulaymaniyah a Parkh si intravedono greggi di pecore guardate a vista da un cane pastore e qualche agricoltore intento irrigare le sue coltivazioni. “Queste terre sono la nostra fonte di sostentamento”, spiega Sedar Muhammad, seduto a gambe incrociate sul grande tappeto che ricopre il pavimento della stanza principale della casa di famiglia. Gli occhi blu sotto i capelli corvini si intonano con il vestito tradizionale curdo che indossa. “Ora che il terreno è libero non devo più andare in un altro villaggio per lavorare. Posso finalmente coltivare la mia terra e pensare seriamente a mettere su famiglia”.

Molti di coloro che hanno perso la vita o sono rimasti mutilati a seguito dell’esplosione di una mina sono pastori o persone che lavorano nei campi. Solo quando vengono completate le operazioni di sminamento le attività possono riprendere in sicurezza © Teba Sadiq

Le operazioni di bonifica hanno permesso a diverse province del Kurdistan di aprirsi anche al turismo, come quella di Duhok, nel Nord-Ovest della regione autonoma. L’area naturalistica è rifiorita negli ultimi anni, ma gli abitanti -e i turisti- devono fare i conti con una nuova minaccia: i bombardamenti della Turchia.

Ufficialmente, l’aviazione di Ankara è impegnata nel Nord del vicino Iraq contro il Partito dei lavoratori curdo (Pkk), presente nella zona settentrionale di Qandil, ed è in grado di lanciare attacchi sia dal territorio turco sia dalle basi militari presenti nello stesso Kurdistan iracheno grazie al benestare del governo locale guidato dal Partito democratico curdo, alleato della Turchia.

Nei bombardamenti però restano coinvolti anche i civili. Nel solo 2022, secondo i dati della “End cross-bording bombing campaign” (di cui fa parte anche la Ong italiana Un ponte per) almeno 20 civili, di cui sei bambini, sono stati uccisi mentre altri 58 sono rimasti feriti. Come nel caso di Peyman Talib, che ha perso una gamba a causa di un attacco turco. Lei, il marito e i due figli piccoli erano nel negozio di famiglia a Kuna Masi, a pochi chilometri da Sulaymnaiyah, quando un drone turco ha colpito una macchina di un militante del Pkk a qualche metro dal loro locale. “Mi sono svegliata in ospedale, non ricordo come ci sono arrivata. Mi hanno tagliato parte della gamba senza anestesia perché avevo perso troppo sangue -racconta Peyman, mentre suo figlio più piccolo le siede vicino-. Da quel giorno sono disabile, devo fare affidamento su qualcuno per qualunque cosa”.

“Non sappiamo perché i turchi continuano a bombardarci. I politici dovrebbero rispondere a questa domanda, ma secondo me è perché siamo curdi” – Peyman Talib

Ai problemi fisici si uniscono quelli psicologici e finanziari. La famiglia si è trasferita a Sulaymaniyah perché per Peyman è tuttora impossibile tornare a vivere a poche centinaia di metri dal luogo del bombardamento. “Vado nel villaggio solo per vedere i miei parenti, ma non mi fermo mai a dormire -continua la donna-. Mio marito invece deve farlo, il nostro negozio è ancora lì e la nostra sussistenza dipende da quell’attività”. Peyman però non è l’unica a essere rimasta ferita: suo figlio di otto anni ha delle schegge di metallo vicino al cervello e necessita urgentemente di un’operazione, ma i genitori hanno poca fiducia nella sanità locale.

Nonostante il dolore che trapela dalle sue parole, Peyman siede con la schiena dritta per tutto il tempo del racconto, lo sguardo serio e determinato di chi pretende giustizia per quanto è successo: “Non sappiamo perché i turchi continuano a bombardarci. I politici dovrebbero rispondere a questa domanda, ma secondo me è perché siamo curdi”.

Entro il 2028 dovrebbe concludersi la bonifica dell’Iraq, uno dei Paesi più contaminati al mondo dalla presenza di mine e ordigni inesplosi. Ma le risorse a disposizione non sono sufficienti e difficilmente questo obiettivo verrà raggiunto

Peyman è diventata uno dei volti della campagna promossa da civili e attivisti contro i bombardamenti turchi e che da anni raccoglie dati e testimonianze per fare pressioni sul governo locale e quello federale. La richiesta è di mettere fine agli attacchi turchi o di fare quantomeno una distinzione tra civili e militari.

Una richiesta ribadita anche da Abudullah, che l’anno scorso ha perso suo padre a causa di un attacco di un drone. L’uomo, un peshmerga in pensione, era andato a fare un picnic nelle montagne che circondano il villaggio di Qamish, a Nord di Sulaymaniyah, quando un velivolo senza pilota ha attaccato lui e i suoi amici.

“La sua morte è una perdita per tutti qui nel villaggio”, racconta Abudullah con un sospiro, mentre si sposta leggermente con la sedia a rotelle per far posto alla madre. “Diciotto anni fa ho perso le gambe ma mio padre mi ha sempre aiutato. Da quando non c’è più mi sento veramente disabile. Tutti noi prima o poi moriremo, ma mio padre lo ha ucciso la Turchia”, conclude, mentre con una mano solleva leggermente gli occhiali da vista per asciugare le lacrime. Fuori il cielo è limpido e il vento piega leggermente le cime degli alberi, ma tutti rivolgono lo sguardo verso l’alto con una punta di terrore. Oggi non ci sono droni turchi in vista, ma domani potrebbero non essere altrettanto fortunati.

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