Diritti / Attualità
Nel buio del Mediterraneo
Guerra ai soccorsi e mani libere ai libici. Violando i diritti umani. Un anno dopo il primo “blocco” a danno della nave Aquarius, ecco che cosa sta succedendo tra Libia e Italia
Giugno 2018, Mar Mediterraneo. Da tre giorni la nave Aquarius della ong francese SOS Mediterranee è in alto mare con 629 naufraghi a bordo, tra cui 123 minori non accompagnati e sette donne in gravidanza, tratti in salvo in sei operazioni. Attende l’autorizzazione allo sbarco in Italia, invano. Pochi giorni prima, a Roma, il governo Conte ha giurato sulla Costituzione e il neo ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha annunciato sui social network “porti chiusi” alle navi delle organizzazioni non governative (“Non è che adesso possano anche decidere dove cominciare e dove finire la crociera”). Più tardi, l’11 giugno, la Spagna dà la disponibilità del porto di Valencia, dove la nave sbarcherà sei giorni dopo.
A un anno dal “blocco”, Frédéric Pénard, direttore delle operazioni di SOS Mediterranee, a bordo dell’Aquarius in quei giorni, racconta un mare che si è fatto sempre più buio, negato ai testimoni, dove nel tempo i “Paesi europei hanno anteposto gli interessi politici all’obbligo imperativo di assicurare un porto sicuro ai naufraghi”, violando il diritto del mare. Un luogo, il Mediterraneo centrale, in cui le “persone continuano a morire” (316 i morti registrati dal primo gennaio al 20 maggio 2019 dal progetto “Missing Migrants” dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni), quando non vengono “intercettate” dalle cosiddette “guardie costiere libiche” e respinte, in palese violazione delle Convenzioni internazionali.
“Oggi abbiamo di fronte la vera faccia dei governi europei. In Libia i respingimenti vengono fatti alla luce del sole e l’appoggio alla ‘guardia costiera libica’ è ormai garantito senza nessun pudore sia dalle forze armate di Malta sia dai mezzi aerei dell’agenzia europea Frontex”, spiega Riccardo Gatti, comandante della nave Astral e capo missione della Open Arms per conto dell’omonima ong spagnola, tra le prime a finire nel mirino della Procura di Catania, nel marzo 2018. Per Gatti quello appena trascorso è stato l’anno dello “svelamento”: “Non va dimenticato che nel giugno 2018, con il decisivo contributo dell’Unione europea e del Governo italiano (guidato da Gentiloni), è stata dichiarata formalmente all’Organizzazione marittima internazionale (IMO) l’area di ricerca e soccorso (SAR zone) in cui la Libia sarebbe lo Stato competente nel coordinamento dei soccorsi”. Un passaggio che sembra formale, ma è fondamentale e che arriva da lontano. Il 28 luglio del 2017 l’allora Consiglio dei ministri retto da Paolo Gentiloni deliberò l’avvio di una missione “in supporto alla Guardia costiera libica”. Tra i compiti spiccavano le “attività di collegamento e consulenza a favore della Marina e Guardia costiera libica” e la “collaborazione per la costituzione di un centro operativo marittimo in territorio libico per la sorveglianza, la cooperazione marittima e il coordinamento delle attività congiunte”. Finalità dichiarata: “Supporto per il contrasto dell’immigrazione illegale”, anche grazie a navi “ausiliarie” italiane ormeggiate nel porto di Tripoli (prima la nave Tremiti, poi la Capri, dal marzo 2018 la Caprera, e così via).
Ecco perché dallo scorso anno il Centro di coordinamento della Guardia costiera di Roma ha smesso di raccogliere le segnalazioni od organizzare i soccorsi. E non appena sono state fissate le coordinate della zona SAR della Libia, il Consiglio europeo il 28 giugno 2018 ha pensato bene di riconoscerne nelle proprie conclusioni la “guardia costiera”, richiamando tutte le navi operanti nel Mediterraneo a “non interferire”. Il fatto che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avesse accusato quella stessa guardia costiera di crimini gravissimi (sequestri, violenze sessuali e riduzione in schiavitù) pesò come una piuma. Gli effetti della “delega” sono stati immediati: tra gennaio e giugno 2018, 46 partiti su 100 finivano intercettati dalle “autorità libiche”. Tra luglio e dicembre dello stesso anno il tasso è schizzato all’85% (dati UNHCR).
La rotta quindi si è fatta stretta e ancor più pericolosa: un morto ogni 15 arrivi in Europa (tra gennaio e giugno 2018) contro uno ogni 11 nel secondo semestre. Nel 2019 questo dato è arrivato addirittura a uno ogni tre arrivi. Stretta, pericolosa e teatro di “comportamenti strani”. “Sappiamo bene come lavorano le motovedette libiche -spiega il capo missione di Open Arms-. Di notte spesso non viaggiano e a 80-90 miglia dalla costa non ci vanno. È per questo che si appoggiano alle navi mercantili per recuperare i naufraghi e riportarli a Tripoli. Ecco perché i Paesi europei, e non soltanto l’Italia, non ci vogliono da quelle parti. Dopo aver trattenuto la nostra nave Open Arms nel porto di Barcellona -continua-, il Governo spagnolo guidato da Pedro Sanchez ci ha dato il via libera alla ripartenza in primavera, imponendoci però il divieto di effettuare soccorsi attivi in mare, pena una multa compresa tra 300mila e 900mila euro. Sanno che se ci siamo certe cose non le possono fare. E non è che non ci vogliono nel Mediterraneo centrale a causa delle persone che poi sbarchiamo in Italia o dove sia. Quella è una scusa. Non ci vogliono perché mostriamo quello che i singoli Stati membri e tutta l’Unione europea lasciano fare”.
L’ong francese SOS Mediterranee sta cercando una nuova nave e una bandiera dopo i passi indietro di Panama e Gibilterra
È in quest’ottica che Gatti suggerisce di leggere la recente “ritirata” dal Mediterraneo dei cinque assetti navali della missione EunavForMed-SOPHIA (avviata nel giugno 2015), concepita sulla carta per smantellare le reti del traffico e della tratta di esseri umani. Nell’ultimo mandato dell’operazione (26 Stati contribuenti, termine 30 settembre 2019) sono previsti infatti appena sei mezzi, tutti aerei. “Quando ho visto che gli Stati ritiravano le navi ho capito subito: le ritirano per non ritrovarsi in quella situazione in cui se soccorrono, perché devono soccorrere, si ritrovano le persone a bordo e perciò diventa un po’ difficile riportarle in Libia o tanto meno sbarcarle in Italia. Però hanno mantenuto gli aerei, così da poter comunicare ai libici che addestrano (355 persone dall’inizio dell’operazione, ndr) dove sono le imbarcazioni da intercettare”. Non sorprende quindi il recente appalto lungo le frontiere da parte del ministero dell’Interno italiano risalente ai primi giorni di maggio del 2019, un mese dopo l’avvio in Libia dell’offensiva militare del generale Khalifa Haftar verso Tripoli. Un affidamento “insignificante” per l’importo (11.595 euro, fornitore la “Intermatica spa”) ma molto significativo per ciò che rappresenta nella strategia di contrasto e respingimento dei migranti in corso nel Mediterraneo: “Acquisto di 15 telefoni satellitari completi di SIM prepagata per le esigenze della Guardia costiera libica”, riporta l’oggetto della fornitura.
Quelle che per il Viminale sarebbero le “esigenze” delle autorità libiche, non sono altro che le necessità del Governo italiano e dei governi dell’Unione europea: impedire alle persone di raggiungere e attraversare le frontiere, nonostante gli obblighi di salvataggio in mare disciplinati dalle Convenzioni internazionali. Tra queste la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS, 1974), la Convenzione SAR (1979), la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, 1982) e le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Risoluzione IMO MSC.167(78), 2004). “L’obbligo di soccorso sorge per il capitano della nave dal momento in cui è a conoscenza della situazione di pericolo -ricorda Francesca De Vittor, ricercatrice in Diritto internazionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano-. Il soccorso comincia con il togliere dal pericolo immediato le persone, per intenderci, dall’acqua, e si conclude con lo sbarco in un porto sicuro. Poiché la Libia, come noto, non è un porto sicuro, il capitano commetterebbe un atto illegittimo se, pur sapendo che non è un luogo di sbarco sicuro, portasse lì quelle persone”. L’obbligo del soccorso è d’intralcio per la strategia del “mare buio” in atto. Per capirlo, è necessario riavvolgere il nastro e tornare all’estate 2018. Dopo l’Aquarius è toccato alla nave della ong tedesca Sea Watch, battente bandiera olandese, fermata a Malta per via di accertamenti tramite un semplice comunicato stampa del Governo della Valletta, al quale non fece seguito alcun atto ufficiale di fermo amministrativo. Ma l’escalation di “chiusura” non ha riguardato “soltanto” le navi delle ong. Giorgia Linardi, portavoce in Italia di Sea Watch, cita ad esempio l’episodio avvenuto a metà luglio 2018 della nave “Sarost 5”, rimasta bloccata per 16 giorni davanti alla Tunisia con 40 naufraghi a bordo prima che fosse consentito lo sbarco. Italia e Malta negarono il porto fino in fondo. O quello del mercantile italiano “ASSO28” dell’armatore Augusta Offshore, “protagonista a fine luglio del primo respingimento in Libia di persone salvate in mare operato da un assetto battente bandiera europea, addirittura italiana”, spiega Linardi. “Poi è toccato alla ‘Alexander Maersk’, bloccata dopo un soccorso davanti alle coste siciliane per diversi giorni prima che lo sbarco fosse acconsentito. Stessa sorte per una nave militare americana che nell’estate 2018 aveva recuperato dei sopravvissuti a un naufragio e si era diretta alla base NATO di Augusta. Anche allora l’accesso al porto fu negato. Si è trattato di un percorso che ha toccato l’apice dell’assurdità con il caso ‘Diciotti’, dove a una delle migliori navi della flotta della nostra guardia costiera, costruita appositamente per il soccorso in mare attraverso finanziamenti europei, è stato impedito l’accesso a un porto italiano, quello di Catania, con 177 naufraghi a bordo”. Come noto, il ministro dell’Interno, accusato di sequestro di persona aggravato dal Tribunale di Catania (sezione reati ministeriali), non ha mai risposto delle sue azioni.
316 i morti nel Mediterraneo centrale registrati dal 1° gennaio al 20 maggio 2019 dal progetto “Missing Migrants”
Tornata a navigare nell’ottobre del 2018, Sea Watch è stata protagonista di altri due episodi chiave. “La prima operazione è avvenuta il 22 dicembre 2018 -continua Linardi-. Per 19 giorni le persone soccorse sono rimaste bloccate a bordo della nave, ferma davanti a Malta in attesa che i singoli Stati membri dell’Ue raggiungessero un accordo politico volontario ad hoc per la redistribuzione dei migranti”. È la logica del sequestro e del rilascio degli ostaggi. Senza un accordo non scende nessuno. A seguito di questo episodio, la Sea Watch compie un’altra missione, il 22 gennaio. Lo sbarco a Catania avviene dopo un blocco in mare di 12 giorni, anche in quel caso nelle more di un accordo politico volontario. “Questa volta le vittime delle ‘trattative’ hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani sulla base degli articoli riguardanti la privazione della libertà individuale e trattamenti inumani e degradanti. Si tratta di adulti e di minori non accompagnati. La CEDU, contattata in forma urgente, ha riconosciuto una violazione da parte dello Stato italiano ma non ha imposto lo sbarco, avvenuto il giorno successivo”. Queste trattative sugli “ostaggi” mettono in seria discussione l’attività di soccorso, ancor più delle inchieste giudiziarie fragorosamente avviate e silenziosamente sfociate, al momento, in un nulla di fatto (da ultima quella della Procura di Catania a carico di Open Arms, partita nel marzo 2018). “Assumersi la responsabilità di avere queste persone a bordo per giorni, le quali soffrono tremendamente e sono bloccate sulla nave sapendo che un continente in pace non le vuole, è una situazione assolutamente debilitante”, spiega Linardi. “Così è difficile portare avanti la nostra missione umanitaria in un contesto che è diventato politicizzato, nel peggiore dei modi. È la conseguenza dell’aver traslato per opportunità di propaganda politica questioni che sono prettamente di terra e che riguardano una seria gestione e un serio approccio al fenomeno migratorio, al livello di ricollocamento tra i membri dell’Unione, alla creazione di vie legali di migrazione, a visti dai Paesi di origine, all’evacuazione dalla Libia. Tutte questioni che andrebbero affrontate da terra e che invece sono state traslate in mare dove vige, stando al diritto internazionale, la semplice norma per cui chiunque si trovi in difficoltà vada soccorso e portato in un posto sicuro”.
Dunque le autorità dei Paesi europei non coordinano più le operazioni di soccorso e i porti vengono “chiusi” per finta, limitandosi a non autorizzare l’ingresso delle navi nelle acque territoriali e a non assegnare loro il luogo di sbarco. A seguito di sei azioni di accesso civico inoltrate al ministero dell’Interno e a quello delle Infrastrutture, infatti, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione ha ricevuto a inizio anno la conferma ufficiale “che essi non hanno adottato alcun provvedimento formale di chiusura dei porti”.
Così come le inchieste a carico delle ong (compresa quella sul trattamento illecito dei rifiuti in capo all’Aquarius, che non ha portato ad alcuna contestazione), anche l’alibi della bandiera è venuto meno. Lo dimostra il caso della piattaforma della società civile italiana “Mediterranea” e del suo rimorchiatore Mare Jonio. Partita nell’ottobre 2018 come azione di monitoraggio e denuncia della violazione dei diritti in quel tratto di mare, Mediterranea si è ritrovata in più occasioni a effettuare dei soccorsi. Un’attività “finalizzata al preordinato trasferimento in Italia di migranti in condizione di irregolarità”, secondo il ministro dell’Interno Salvini, il quale ha prima diramato due contestate direttive per bloccarne l’attività (marzo e aprile 2019) e poi ha proposto a metà maggio di quest’anno (quando Altreconomia va in stampa è in discussione la bozza) un “decreto sicurezza bis” che tra le altre cose assegna al Viminale il potere di “limitare o vietare” il transito di navi per “motivi di ordine e sicurezza pubblica” e introduce una sanzione amministrativa sulle spalle delle navi tra 3.500 e 5.500 euro per “ciascuno degli stranieri trasportati”. Tanto il decreto quanto le direttive -stroncati a fine maggio dagli Special Rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti umani, poiché manifesto “tentativo di criminalizzare l’opera di ricerca e soccorso delle ong nel Mediterraneo” e benzina sull’infuocato “clima di ostilità e xenofobia contro i migranti”- si fondano sulla presunta “tutela della sicurezza pubblica”. Quelle trasportate, secondo il Viminale, sarebbero persone “provenienti in parte da Paesi stranieri a rischio terrorismo” e in quanto tali pericolose. È una “inversione dei piani”, segnala De Vittor, per la quale “chi fugge dai terroristi si trasforma paradossalmente in un terrorista”. Non solo: “L’interpretazione che emerge è quella di un mare territoriale che diventa chiuso, quando invece è un mare aperto, dove c’è il diritto di passaggio inoffensivo e la giurisdizione dello Stato di bandiera in relazione alle vicende che non escono dalla regolamentazione interna della nave”. Il tentativo del Governo -che, come visto, è in perfetta sintonia con la strategia europea- è quello di affermare la supremazia delle “istruzioni operative emanate dalle autorità responsabili dell’area in cui ha luogo l’operazione di soccorso ovvero dalle rispettive autorità dello Stato di bandiera” (dalla bozza del “decreto sicurezza bis”). Un ordine operativo che vorrebbe sovrastare le Convenzioni. “Il diritto internazionale riconosce al capitano della nave una discrezionalità volta all’adempimento di un obbligo, che è quello di salvaguardare la vita umana in mare -riflette De Vittor-. E quello prevale, checché ne dica un qualsiasi decreto legge o una qualsiasi direttiva”.
“Sono state usate tutte le armi per criminalizzarci -dice Pénard-. Il risultato è che oggi in mare non c’è più nessuno che si dedichi strutturalmente al soccorso. Si dice che non ci sia un problema, che tutto sia sotto controllo, ma non è vero. Non ci siamo ed è terribile. E lo sarà sempre di più”. La domanda che sorge spontanea è “Chi ne risponderà?”, fosse anche per la violazione del diritto internazionale del mare e dell’obbligo del soccorso. “Esiste un tribunale che sarebbe competente -spiega De Vittor- ed è il tribunale del diritto del mare di Amburgo. Il problema è che al tribunale l’azione è inter-statale, ovvero occorre che uno Stato membro della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e membro della Convenzione SAR promuova un’azione contro un altro Stato ritenendo che ci sia una violazione”. Non c’è luce nel mare buio.
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