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Napoli, storica sentenza contro lo sfruttamento lavorativo

Costretti a turni di lavoro massacranti e sottopagati, un gruppo di lavoratori bengalesi ha denunciato i propri aguzzini. Un pronunciamento del tribunale di Napoli accerta il “grave sfruttamento lavorativo” nelle fabbriche tessili e condanna il titolare a otto anni di carcere

Un momento della protesta dei lavoratori bengalesi a Sant'Antimo nel 2014

Associazione a delinquere finalizzata al grave sfruttamento lavorativo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con l’aggravante del reato transnazionale. Con queste accuse un imprenditore di origine bengalese, attivo nel settore tessile, è stato condannato dal Tribunale di Napoli a otto anni di carcere. Assieme a lui, altre quattro persone che svolgevano ruoli diversi all’interno della gestione dell’azienda sono stati condannati a pene variabili fra i 6 e i 5 anni.

Una sentenza importante, come spiega l’avvocato Amarilda Lici di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e che ha seguito la vicenda. “Si tratta di una delle poche pronunce in Italia in cui viene riconosciuto lo sfruttamento lavorativo. Per di più all’interno di un’azienda tessile quindi più difficile da far emergere –spiega ad Altreconomia l’avvocato Amarilda Lici-. Si tratta di procedimenti molto delicati e complessi: chi può denunciare è spesso sottoposto a ricatti. Inoltre difficilmente le vittime si riconoscono come tale. Far maturare questa consapevolezza, riconoscersi come vittima di sfruttamento e sapere di avere diritto a una tutela è stato il primo passo”.

Così come il condannato, anche le vittime sono di origine bengalese. Erano state reclutate nelle regioni più povere del loro Paese da quel connazionale – residente da anni in Italia – che forte della sua fama di “imprenditore di successo” nel settore tessile prometteva un lavoro ben retribuito, il permesso di soggiorno e persino la possibilità di alloggio. In cambio chiedeva il pagamento di 10-12mila euro per l’attività di intermediazione, i documenti di viaggio e successivamente il permesso di soggiorno.

Al loro arrivo in Italia (per la precisione a Sant’Antimo, un comune del Napoletano) i giovani lavoratori bengalesi hanno scoperto in breve tempo la realtà delle cose: turni di lavoro massacranti (dalle 7:30 alle 21:30 dal lunedì al sabato, dalle 8 alle 17 la domenica), stipati in alloggi affollati e con una paga che oscillava tra i 120 e i 300 euro al mese. E senza mai ottenere il permesso di soggiorno, come inizialmente promesso. A completare il tutto atti di intimidazione, violenze e vessazioni.

Di fronte al mancato pagamento di alcuni stipendi, nel 2013 un primo gruppo di lavoratori bengalesi aveva deciso di rivolgersi all’associazione “3 Febbraio” per chiedere un aiuto. “Inizialmente il loro obiettivo era quello di farsi pagare gli stipendi mai versati -spiega Pierluigi Umbriano, dell’associazione-. Solo in un secondo momento è emersa la gravità della situazione. Ed è stato necessario un lungo percorso di conoscenza e di costruzione di fiducia per convincerli a sporgere denuncia”. Ma non solo: nel marzo 2014 gli stessi lavoratori hanno organizzato una manifestazione pubblica per protestare contro lo sfruttamento.

“L’esito di questo processo rappresenta un’importante vittoria su più fronti”, spiega Amarilda Lici. Il primo è sicuramente l’applicazione della norma che punisce l’intermediazione illecita e lo sfruttamento lavorativo (art 603 bis) sanzionando non solo il “caporale” ma anche chi organizza il lavoro dei reclutati, indipendentemente dall’intermediazione. “Il lavoro avveniva all’interno di queste piccole fabbriche. E questo ha reso ancora più difficile l’emersione del fenomeno – spiega l’avvocato-. I migrati si trovavano in una situazione di totale isolamento, sottoposti a orari massacranti, pochissimi parlavano italiano o lo parlavano male. Inoltre essendo irregolari e sottoposti a ricatto avevano poche possibilità di ribellarsi”.

Altro elemento positivo, il fatto che il PM ha espresso parere favorevole al rilascio dei permessi di soggiorno per protezione sociale e per motivi umanitari a tutte le parti offese (16 querelanti in tutto). “Questo processo ha confermato, ancora una volta, il principio secondo cui il permesso di soggiorno deve essere un diritto garantito alla vittima che accede alla giustizia, con ciò contrastando di fatto le tesi (seppur limitate) che lo ritengono un mero “approccio premiale”, conclude l’avvocato Lici. Ultimo, ma non meno importante, il riconoscimento di Asgi quale parte civile nel processo che rappresenta “un ulteriore passo significativo nella lotta e nel contrasto al fenomeno dello sfruttamento, ambito in cui Asgi è già attiva da diversi anni”.

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