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Diritti / Opinioni

Moria, un campo di internamento “normale” nel XXI secolo

Detenzione, violazione dei diritti e delle libertà. Sull’isola di Lesbo, e altrove, non c’è accoglienza, c’è confinamento. Ed è voluto. La rubrica di Gianfranco Schiavone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

Tratto da Altreconomia 230 — Ottobre 2020
© Medici senza frontiere

Il 18 settembre 2018 Alessandro Barberio, uno psichiatra italiano che allora operava al campo di Moria a Lesbo per Medici senza Frontiere, così definiva la situazione: “Le condizioni di vita spaventose, l’esposizione a continue violenze, la mancanza di libertà, il grave deterioramento della salute fisica e mentale e le pressioni degli abitanti dell’isola fanno assomigliare Lesbo a un vecchio manicomio come non esistono più in gran parte dell’Europa, dalla metà del XX secolo”. L’enorme mostro, destinato ad accogliere fino ad un massimo di 4mila persone ne stipava più di 13mila quando il 9 settembre 2020 è stato distrutto da un enorme incendio che ha lasciato privi di tutto coloro che lo avevano abitato. Delle perverse ragioni che hanno portato alla nascita del campo di Moria ho già accennato nel numero 225 di Altreconomia ma ora, a tragedia consumata, va ripresa la riflessione su ciò che è avvenuto e sulle prospettive. Fatta salva la disponibilità a ricollocare in 10 Paesi europei i minori non accompagnati e forse qualche piccola quota di adulti, al momento della stesura di questo articolo (metà settembre) non è previsto alcun piano di ricollocazione nei Paesi Ue delle circa 12mila persone che abitavano il campo ne è prevista alcuna loro distribuzione nel territorio greco. La vicepresidente della Commissione europea Margaritas Schinas ha annunciato che l’Unione finanzierà la costruzione di un nuovo campo sull’isola.

Perché? Nessuno dubita che su un’isola di fronte alla costa turca come Lesbo non sia necessario un piano robusto di prima accoglienza dei rifugiati ma la logica che muove l’intervento della Ue non appare quella di allestire una struttura di transito bensì di rifare ciò che Moria è stato, ovvero un campo di confinamento/internamento. Sono consapevole di proporre una tesi pesante che alcuni non condivideranno, e sarò felice come nessun altro di sbagliarmi, ma ritengo che possiamo parlare di una lucida e criminale scelta politica di creazione di nuovi campi di confinamento/internamento (da non confondersi con i campi di sterminio, con i quali tuttavia condividono aspetti importanti) per i seguenti motivi: non c’è in Europa e alle sue frontiere esterne nessuna emergenza collegata a grandi spostamenti di popolazione che giustifichi la creazione di enormi campi nei quali collocare i migranti. Il campo di Moria come altri nella Ue stessa o in Paesi terzi vicini, come quelli finanziati dalla Ue, in Bosnia, non nascono dunque in ragione di una dura realtà che impone scelte dolorose ma rispondono a una scelta pianificata di aprire strutture per confinare a lungo termine le persone. Inoltre i trattamenti degradanti e violenti che vengono inflitti alle persone confinate non rappresentano un evento occasionale cui porre presto rimedio ma sono una caratteristica peculiare e permanente della vita nei campi, mentre ambiguo o quantomeno assai indebolito risulta il ruolo delle agenzie internazionali quali l’Organizzazione internazionale delle migrazioni e l’Alto commissariato Onu per i rifugiati nell’esercitare, nei campi e fuori di essi, un ruolo terzo indipendente nel tutelare i diritti dei rifugiati.

Infine il ricorso alla detenzione è ampio e affatto straordinario, come pure imporrebbero le normative europee, e laddove essa non è applicata viene comunque fortemente compressa la libertà di circolazione, mentre la collocazione geografica dei campi in luoghi estremamente periferici, insieme alla mancanza di ogni forma di interazione con il territorio (che talvolta viene persino proibita), producono nella vita delle persone un effetto assai vicino a quello di una lunga detenzione senza colpa.

L’insieme dei diversi elementi porta, per riprendere l’analisi di Barberio, a “un tracollo fisico e psicologico delle persone. […] Molti non sono in grado di svolgere nemmeno le più basilari attività quotidiane, come dormire, mangiare o parlare”.
Diversamente da quanto, almeno in parte, è avvenuto con i manicomi, nella gestione dell’arrivo dei rifugiati l’uso dei campi di confinamento si configura sempre più come sistema “normale”, come vedremo esaminando le imminenti nuove proposte della Commissione europea.

Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni nonché vice-presidente dell’Asgi e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste

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