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Diritti / Intervista

Monika Bulaj. L’atlante delle minoranze a rischio

Un’immagine scattata da Monika Bulaj in Afghanistan. Fotografa, reporter e documentarista è nata a Varsavia il 21 maggio 1966 © Monika Bulaj

Da trent’anni la fotografa di origine polacca documenta fragili comunità la cui sopravvivenza è minacciata da regimi autoritari e gruppi terroristici. Un viaggio dal Caucaso al Pakistan alla scoperta di mondi che rischiano di essere cancellati

Tratto da Altreconomia 263 — Ottobre 2023

“La morte di una cultura è qualcosa di palpabile e tremendamente doloroso, soprattutto quando viene causata da un governo o da un regime che mira apertamente alla censura di riti e tradizioni. Lo osservo ogni volta che mi capita di ritornare nei luoghi dove anni prima mi ero recata per le mie ricerche e i miei reportage e oggi non trovo più le persone. Ho la sensazione di aver salvato qualcosa nelle mie immagini, ma non era quello il mio intento originario”.

Monika Bulaj è una giornalista e fotografa che da più di trent’anni si muove lungo i confini. Lo fa a piedi o a dorso di cavallo, con lentezza e sguardo antropologico: ogni suo scatto è frutto di ricerche maniacali e curato in ogni minimo dettaglio. Una ricerca enorme -che spazia dall’Europa orientale al Pakistan, dall’Etiopia al Caucaso- condensata in “Geografie sommerse”, un ricco libro fotografico in cui sono raccolte oltre cento immagini a colori e in bianco e nero.

Un volume che, al tempo stesso, vuole essere un atlante delle minoranze a rischio e racchiude un lungo lavoro di documentazione sulla fragilità delle comunità di fronte al fondamentalismo -religioso o di Stato- che ne minacciano la sopravvivenza. Sotto i nostri occhi, infatti, sta scomparendo la ricchezza della complessità in quelle terre dove, per millenni, le genti di tante fedi diverse hanno condiviso gesti, simboli, canti e miti.

Monika Bulaj, come ha avuto inizio questo lavoro?
MB Io sono polacca, vengo da un Paese che è un immenso cimitero. Quando ero poco più che adolescente ho iniziato la mia ricerca sui lemki, una minoranza rutena di religione ortodossa e greco-cattolica che viveva ai confini tra Polonia e Slovacchia e che nel corso del XX secolo è stata distrutta tra deportazioni, conflitti e campi di lavoro: per molti anni ho inseguito disperatamente gli ultimi ruteni per trascrivere e documentare la loro cultura, la loro religione, le loro storie. Quell’esperienza per me è stata un laboratorio per raccontare gli impatti che i conflitti hanno sulla popolazione civile e sulle minoranze in particolare. Ho iniziato a lavorare anche in altri Paesi, mettendo al centro il tema della spiritualità dei confini: la mia è sempre stata una ricerca di carattere quasi accademico, se non per la mia volontà di essere una reporter sul campo. Quello che sto portando avanti è un lavoro sulla spiritualità dell’uomo.

Il canto delle donne pugliesi per la madre di Dio che perse il figlio, il lamento di Demetra, Stabat Mater © Monika Bulaj

Chi sono i popoli che ha incontrato?
MB Sono piccolissime entità che vivono lontano dai grandi centri e spesso tra popoli in guerra. C’è una moltitudine di minuscoli mondi nascosti lungo i confini tra Iraq, Iran e Siria, nel Caucaso come negli Urali. Cercano di conservare riti antichi e spesso sono i custodi degli ultimi luoghi in cui si incontrano persone di fedi diverse: penso ai santuari sufi tra India e Pakistan, dove arrivano persone di tutte le fedi e dove le donne, con i capelli sciolti, danzano tra gli uomini. E proprio per questo sono minacciati da gruppi di ispirazione wahabita -una corrente islamica radicale di origine saudita- che vuole distruggere queste esperienze antiche e bellissime. Purtroppo lo sta facendo in diverse parti del mondo: ho visto le stesse dinamiche in diverse parti dell’Asia ma anche in Africa.

In questi anni è cambiato qualcosa nel suo modo di avvicinarsi a questi gruppi?
MB Nel profondo e nell’anima dell’incontro no: il mio ruolo viene riconosciuto come quello di una persona che è in un determinato luogo per raccontare una storia. Ci sono però dei cambiamenti portati dalla tecnologia, come gli smartphone e i social network: prima di iniziare a scattare vengo immortalata in centinaia di selfie come se fossi un rinoceronte. Oppure cinque minuti dopo lo scatto le persone mi chiedono di avere le foto che ho realizzato in modo da poterle postare sui loro profili social. Questo per me è molto pesante. Voglio produrre qualcosa che rimanga nella sua forma integrale e non effimera, che poi è ciò che comportano queste piattaforme.

Una selezione degli scatti di Monika Bulaj sarà esposta fino all’8 ottobre al “Magazzino delle idee” di Trieste. Da oltre trent’anni, la fotografa e reporter lavora sui confini delle fedi e luoghi sacri condivisi, minoranze e popoli nomadi a rischio in Europa, Asia, Africa, Caraibi e Sud America. Questa fotografia mostra la cerimonia nuziale di Aaliyah in Punjab, Pakistan © Monica Bulaj

Un verbo che lei utilizza spesso per descrivere il suo lavoro è “camminare”. Che ruolo ha questo approccio per un fotografo?
MB Le scarpe sono forse più importanti della macchina fotografica. Quando ho lavorato a Kabul, sotto l’occupazione talebana, facevo ogni giorno decine di chilometri a piedi: ci sono incontri che sono possibili solo andando verso le persone. Recentemente sono stata in Brasile, dove ho riparato una vecchia bicicletta per potermi spostare nelle riserve assieme alle persone del posto, mentre tra i nomadi ho viaggiato a cavallo: è condivisione. Un modo per conoscere il mondo rasoterra, dall’esperienza. Gli aerei sono certamente necessari per spostarsi, ma quando posso cerco sempre di rallentare e viaggiare con le persone, avvicinandomi lentamente.

“So che le mie opere non hanno cambiato il mondo. Ma sento il dovere della memoria: testimoniare e lasciare tracce attraverso lo scritto e la fotografia”

In un mondo in cui le minoranze religiose sono sempre più a rischio e dove le terre di confine diventano sempre di più zone di conflitto, la fotografia può dare un contributo alla costruzione di percorsi di pace?
MB Lo spero e questa speranza mi dà la forza per continuare. Mi interrogo da sempre sul senso del mio lavoro: durante gli anni della pandemia da Covid-19 e per i due successivi mi sono fermata per dedicarmi al lavoro umanitario. So che le mie opere non hanno cambiato il mondo, non hanno salvato vite umane. Ma sento il dovere della memoria: testimoniare e lasciare tracce attraverso lo scritto e la fotografia, che per me sono ugualmente importanti. Penso che raccontare e far conoscere queste storie sia importante, per questo credo molto nella divulgazione: spero che le persone imparino, si incuriosiscano e smettano di vedere il mondo attraverso la lente della teoria dello scontro delle civiltà e delle guerre di religione, che va tutto vantaggio dei terroristi. “Geografie sommerse” prova a smontare questa retorica per mostrare realtà incredibili che dobbiamo imparare a vedere, conoscere, studiare perché custodiscono qualcosa di preziosissimo per tutti noi.

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