Diritti
Migranti, i punti deboli della proposta di Report
di Duccio Facchini —
Domenica 8 maggio la trasmissione di Rai3 ha mandato in onda una puntata sul modello di accoglienza del nostro Paese proponendo un “progetto concreto” come “via d’uscita”. Il punto è che la strategia, che non cita mai il progetto SPRAR, punta alla sistemazione di 200mila persone in 400 grandi siti, confermando di fatto l’approccio emergenziale e perdente di questi anni. Ma l’alternativa, in realtà, esiste già
“Con questa puntata ci siamo impegnati […] ad immaginare come trasformare una calamità in un vantaggio per il richiedente asilo, per noi e per l’Europa. Un progetto concreto, anche severo, pensiamo di civiltà e soprattutto realizzabile”. Con queste parole la giornalista Milena Gabanelli ha lanciato domenica 8 maggio il servizio della trasmissione Report su Rai3 intitolato “La via d’uscita” e dedicato a frontiere, immigrazione e accoglienza. Una puntata che ha destato non poche perplessità tra gli addetti ai lavori, in particolare per la "soluzione" immaginata e riproposta di un’accoglienza centralizzata in 400 caserme (ospedali o resort) di 200mila persone, ben lontana dalle pratiche virtuose di modelli "diffusi".
Il progetto “concreto” avrebbe dovuto riguardare il nostro Paese e il modello di gestione-accoglienza dei richiedenti asilo, ritenuto incapace di garantire standard di efficienza. Dal momento che “non abbiamo alternative perché attorno a noi tutto è chiuso -ha spiegato Gabanelli- proviamo a rigirarla, facciamola noi l’accoglienza, gestione pubblica, l’Europa ci paga e poi ogni Paese si prende la sua quota, già formata e identificata”. Per “chiuso” s’intende il contesto europeo, valico del Brennero compreso, come fa notare durante la trasmissione il segretario provinciale del sindacato di polizia COISP. La fonte prescelta però è la stessa sigla che non più tardi di un mese fa aveva spacciato un naufragio per un complotto, oltre ad essersi resa protagonista di picchetti vergognosi organizzati a Genova contro la memoria di Carlo Giuliani o manifestazioni sotto l’ufficio di Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, il ragazzo ucciso a Ferrara da alcuni poliziotti nel settembre 2005.
Al di là delle fonti, la questione di Report è spiccia: “Dove metterli (i migranti, ndr)?”. Per rendere appetibile la ricetta di un’Italia “hotspot” comunitario, la trasmissione ha mescolato ingredienti risolutivi: i siti ideali dove stoccare la merce saranno “resort […] confiscati alla mafia, ex ospedali, e […] l’immenso patrimonio delle caserme”, che del resto in Italia sono “centinaia”.
“Ipotizzando l’accoglienza di circa 200mila persone l’anno, occorre identificare 400 luoghi”. Calcoli alla mano, sempre secondo la redazione di Report, la svolta accogliente si costruirebbe in buona parte su quattrocento caserme (e ospedali e resort), oggi dismesse e domani già adibite a efficaci contenitori di 500 persone in media. Quando Gabanelli illustra l’idea in studio, parte una simulazione al computer delle stanze riadattate dei centri militari. Qui i letti a castello, qui i bagni separati, qui i banchi di scuola d’italiano dove poter insegnare i valori della “democrazia europea”.
Al capitolo “personale”, Report ipotizza l’assunzione “a tempo pieno” di 25mila tra “insegnanti, formatori, psicologi” per un costo annuo di 750 milioni di euro. 30mila euro lordi a testa all’interno di un’organizzazione capace di assicurare risultati nel campo della “maggiore percezione di sicurezza” e “maggiore disponibilità sociale”.
Ma il vero punto debole della proposta centralizzata di Report sta nel fatto che durante la trasmissione non è mai stata citata la gestione pubblica dell’accoglienza che nel nostro Paese già esiste dal 2002 e che si fonda sul protagonismo degli enti locali: si tratta del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) che dipende dal Viminale e che nel 2014 ha garantito oltre 20mila posti grazie al coinvolgimento di 381 enti locali, in buona parte Comuni, accogliendo così 22.961 migranti.
Lo SPRAR è l’alternativa diffusa all’approccio emergenziale e centralizzato che fa capo alle prefetture, e che ancora oggi caratterizza il modello italiano nel 72% dei casi, come ha fotografato anche il ministero dell’Interno nel “Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia” dell’ottobre 2015.
Anche Silvia Turelli, operatrice della cooperativa K-PAX Onlus di Breno (BS) al centro di un lungimirante progetto di accoglienza diffusa in Valle Camonica, è rimasta perplessa dall’opzione “caserme”. “L’ipotesi che grandi concentrazioni di persone possano assicurare sicurezza e integrazione non è assolutamente percorribile ed è già stata smentita dai fatti -afferma-. Com’è possibile creare interazione, non dico integrazione, collocando insieme 300 o 1.000 persone in una caserma? Se la soluzione fosse temporanea, al massimo per due settimane, e limitata all’esecuzione di fotosegnalamento e a un primo screening sanitario in vista di una ricollocazione sul territorio, allora avrebbe un senso. Ma trattenere 500 persone in un unico centro per minimo sei mesi sarebbe un errore”.
Il disinteresse di Report per il modello SPRAR è condiviso da buona parte degli enti locali del Paese, visto che nell’ultimo bando per l’assegnazione di posti e progetti non si è raggiunta la quota necessaria, mandandolo così praticamente deserto. “Ma la debolezza politica dell’accoglienza non è un buon motivo per abbandonare un modello come lo SPRAR che comporta una spesa contenuta e offre servizi assolutamente competitivi ed efficienti”, spiega Turelli. Nel 2015, il ministero dell’Interno ha stimato una spesa complessiva del sistema di accoglienza di 1.162 milioni di euro, 242,5 dei quali in capo allo SPRAR, con un “costo medio pro-capite giornaliero” identico alle strutture temporanee ma oneri di rendicontazione dei servizi erogati (assistenza legale, sanitaria e così via) ben più stringenti di quelli imposti ai gestori individuati con bando prefettizio.
“Il punto è che in Italia non c’è mai stata una reale politica dell’integrazione -riflette Turelli- e non affrontare la questione significa continuare a isolare le persone, limitarne la presenza, come se si dovessero scongiurare contatti tra mondi separati”. L’esempio di Breno e di K-PAX dimostra che il modello diffuso in piccoli appartamenti in grado di ospitare fino a cinque migranti funziona. “La forza sta nell’estrema flessibilità della gestione e nel coinvolgimento pieno delle persone, che è l’esatto contrario dell’aula fissa o lo spazio dei laboratori ripetuti ciclicamente. Nel nostro caso lo sforzo è stato quello di adattarsi alle esigenze dei migranti”. Uno sforzo condotto non soltanto da “insegnanti, formatori, psicologi” ma anche da mediatori culturali e operatori legali.
Ma l’ossessione del "dove metterli?" ha portato Report ha commettere un altro errore. A proposito dei richiedenti protezione, infatti, Gabanelli ha affermato che “In Italia, fino ad oggi sono arrivati perlopiù sub sahariani, che non fuggono da Paesi in guerra ma magari da guerriglie e quindi bisogna valutare caso per caso, per stabilire chi è richiedente asilo, chi ha diritto all’asilo e chi no e ci mettiamo fino a due anni”. Ma questa è la regola, la traduzione normativa di principi racchiusi in trattati e accordi internazionali sui rifugiati (come la Convenzione di Ginevra del 1951). A nessuno spetta formalmente una valutazione complessiva e sommaria a seconda del passaporto. Tutti, cittadini siriani o “sub-sahariani”, hanno dunque diritto all’esame individuale della loro richiesta di protezione. E tutti, salvo eccezioni (disciplinate ad esempio nel Dl 142/2015), hanno il diritto di ricorrere a un giudice terzo in caso di diniego opposto dalla commissione territoriale.
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