Diritti / Opinioni
La “casa” dei migranti ambientali è il Pianeta
Gli slogan di chi punta a rimuovere o allontanare il fenomeno dei profughi sono deboli. Mentre il legame tra climate change e sfollati è fortissimo
Come in tutte le ultime estati, le migrazioni sono state al centro delle cronache quotidiane, a causa degli sbarchi di migliaia di persone sulle coste italiane. Le stragi continue, le parole d’ordine becere, le azioni improvvisate in molte nazioni, le polemiche ci hanno ancora una volta mostrato l’incapacità di una larga parte della politica e dell’opinione pubblica di affrontare il fenomeno, a riconoscerne la portata storica, le cause profonde o contingenti. E una di queste cause è il cambiamento climatico.
Le migrazioni esistono da sempre, hanno accompagnato la storia degli esseri umani e le variazioni climatiche sono solo uno dei fattori che spingono le persone a spostarsi (per approfondire rimando a “Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è meglio così”, di Valerio Calzolaio e Telmo Pievani, Einaudi). Ma oggi il clima è già cambiato più velocemente che nel passato della civiltà umana, e continuerà a farlo nei prossimi decenni.
I dati delle varie agenzie sui profughi e i rifugiati ambientali -l’UNDP in sede ONU o l’ Internal Displacement Monitoring Centre, IDMC- evidenziano anche l’effetto delle variazioni climatiche sugli elementi base per la sussistenza delle persone nel Sud del mondo: il cibo e l’acqua. Si inizia a parlare e scrivere di “migranti ambientali” e di “profughi climatici”.
Ad esempio, lo studio pubblicato nel marzo 2015 sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”, intitolato “Climate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought” ha sottolineato il nesso tra l’influenza umana sul sistema climatico e la siccità disastrosa nel periodo 2007-2010 (la peggiore da quando esistono dati strumentali di precipitazioni) che ha portato al collasso l’agricoltura siriana. La conseguente migrazione di massa (1,5 milioni di persone) verso le città, ha generato tensioni sociali aggiuntive a quelle già presenti a causa dei circa 1,2-1,5 milioni di profughi della guerra in Iraq presenti in Siria. La rivolta popolare e la conseguente guerra hanno avuto certamente anche altre cause socio-politiche (fra cui la disoccupazione e la criminalità, l’assenza di infrastrutture, le grandi diseguaglianze, nonché un feroce regime dittatoriale incapace di gestire la crisi), ma è innegabile come la grande spinta all’urbanizzazione portata dalla siccità sia stata una concausa.
1,5 milioni. Sono i siriani che prima della guerra hanno abbandonato le campagne a causa della pesante siccità nel periodo 2007-2010
Quello siriano è solo un esempio, ce ne sarebbero altri in tante altre parti del mondo. Se si guardano i fondamentali del problema, non si può che concludere come in futuro il fenomeno migratorio continuerà, e che i rifugiati climatici non scompariranno. Anzi, saranno un tema centrale delle politiche di adattamento ai cambiamenti climatici nei prossimi decenni, come si inizia timidamente a discutere anche nel negoziato internazionale sul clima.
La conoscenza del legame fra gli impatti dei cambiamenti climatici e le migrazioni è oggi limitata agli esperti del settore, non arriva all’opinione pubblica; anche nelle classi dirigenti pare assente la percezione di quanto questa sia oggi una questione centrale per il nostro mondo globalizzato. Da questa ignoranza, in buona o cattiva fede, nascono gli slogan “aiutiamoli a casa loro”, che sentiamo da decenni da chi vuole negare la necessità di gestire il fenomeno migratorio sulla base di criteri di giustizia e di umanità. Possiamo aiutarli anche qui, anche cercando di limitare il surriscaldamento del nostro Pianeta. Che è uno solo, ed è anche il loro.
Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2016)
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