Diritti / Attualità
Madeleine Baran. La strage dimenticata

Nella serie podcast “In the dark” la giornalista fa luce per la prima volta sul massacro del 19 novembre 2005 nella città irachena di Haditha, dove i marines americani uccisero 24 civili indifesi dopo la morte di un commilitone
Il 19 novembre 2005, nella cittadina di Haditha in Iraq, 24 civili, uomini, donne e bambini furono uccisi da una squadra di marines americani. La vittima più giovane aveva solo tre anni, quella più anziana 76. Nemmeno una persona è andata in carcere per quella strage. Quella mattina, l’esplosione di un ordigno improvvisato uccise un marines e ne ferì altri due, mentre viaggiavano su un convoglio di quattro Humvee.
Subito dopo, la squadra di dieci militari guidata dal sergente Frank Wuterich sparò a cinque uomini che si stavano dirigendo in taxi verso un college a Baghdad. Poi, nel giro di poche ore, i marines entrarono in tre case vicino al luogo dell’incidente e ammazzarono quasi tutte le persone che si trovavano all’interno. Quasi vent’anni dopo, la giornalista Madeleine Baran insieme al team del podcast “In the dark”, prodotto dalla testata americana The New Yorker, ha deciso di tornare a indagare su questo caso. Un lavoro investigativo enorme, accurato e rispettoso delle parti coinvolte che ha previsto centinaia di interviste, viaggi in 21 Stati e tre continenti e lo studio di migliaia di documenti. Altreconomia ne ha parlato con l’autrice.
“Ho trascorso gli ultimi quattro anni a indagare su un crimine che la maggior parte delle persone ha dimenticato da tempo”, si ascolta nel podcast. Baran, perché ha deciso di concentrarsi su questo caso dopo così tanto tempo?
MB Da molti anni mi interesso a ciò che accade nei casi di crimini di guerra. Ogni volta che c’è un conflitto importante sentiamo: “Questo è un crimine di guerra. Questa persona dovrebbe essere punita per crimini di guerra”, ma in realtà non sappiamo molto su come poi vengano effettivamente gestiti. Mi interessava quindi capire di più sulla giustizia militare degli Stati Uniti. Sembra essere un sistema parallelo, difficile da comprendere, di cui non sappiamo quasi nulla. Eppure è incaricato di occuparsi di alcuni dei peggiori presunti crimini che si possano immaginare. Come giornalista investigativa sono poi sempre alla ricerca di casi in cui viene esercitato un potere enorme ma manca del tutto una forma di controllo. Ed è lì che sento davvero che il giornalismo può fare il suo lavoro migliore.
Quando abbiamo pensato alla vicenda del massacro di Haditha, ci siamo ricordati quello che si diceva a quei tempi, anche in seguito allo scandalo di Abu Ghraib (prigione in Iraq dove l’esercito degli Stati Uniti commise una serie di gravi violazioni dei diritti umani come torture e stupri, ndr). I marines promettevano che avrebbero indagato fino in fondo scoprendo i veri responsabili e persino il presidente George Bush ne aveva parlato. Ma poi non è andata così. Inoltre, poiché la causa finale è andata avanti per molto tempo, quando è terminata con un patteggiamento di Frank Wuterich nel mezzo del processo, non c’erano giornalisti a raccontarlo, non è stata quindi una grande notizia. Era il 2012 e la guerra in Iraq era finita, Barack Obama era diventato presidente, il mondo, almeno quello occidentale, non pensava più ogni giorno all’Iraq, voleva lasciarsi alle spalle il passato. E così questo Paese è stato lasciato a gestire da solo le ricadute di anni di conflitto.
“Sono sempre alla ricerca di casi in cui viene esercitato un potere enorme ma manca del tutto una forma di controllo. Ed è lì che sento davvero che il giornalismo può fare il suo lavoro migliore”
L’impatto di un presunto crimine di guerra è spesso correlato all’orrore delle immagini che finiscono nelle mani del pubblico, come accaduto nel caso di Abu Ghraib. Nessuno però aveva mai avuto accesso, prima d’ora, alle foto della strage di Haditha. Come avete fatto a riceverle?
MB Il modo in cui abbiamo ottenuto le foto è stato unico. Nel 2020 abbiamo presentato una richiesta ai sensi del Freedom of information act (Foia), la legge che permette l’accesso ai registri pubblici, per acquisire tutte le informazioni nei fascicoli investigativi di Haditha. Quindi non solo le foto, ma anche le registrazioni, le dichiarazioni, i documenti delle interviste. Ma questa richiesta non stava andando avanti. Abbiamo quindi deciso di assumere un avvocato di uno studio legale di Chicago specializzato nelle cause al governo per l’applicazione del Foia.
Il 27 agosto 2024 è uscito sulla testata americana The New Yorker l’articolo “Le foto del massacro di Haditha che i militari non volevano che il mondo vedesse”. Contiene dieci foto della strage compiuta dai marines americani il 19 novembre 2005. Sono state ottenute da Madeleine Baran grazie all’accesso civico generalizzato (Foia) e pubblicate a quasi vent’anni dai fatti
Abbiamo quindi iniziato a ottenere diverso materiale, ma non le foto. Abbiamo scoperto dai documenti che stavamo ricevendo che uno dei motivi per cui il governo diceva di non voler mostrare le foto era perché avrebbero traumatizzato i sopravvissuti e quindi usava come pretesto la preoccupazione per il loro interesse. Così siamo andati da due dei familiari dei sopravvissuti, Khalid Jamal (a cui sono stati uccisi il padre e gli zii, ndr) e Khalid Salman Raseef (un avvocato che ha perso 15 familiari nella strage, ndr), abbiamo lavorato in modo collettivo e abbiamo formulato insieme dei moduli di autorizzazione a ricevere le foto da parte dei familiari dei defunti. E poi, cosa ancora più notevole, Khalid Jamal e Khalid Salman Raseef, hanno raccolto, porta a porta, 17 firme che abbiamo depositato in tribunale. Un giorno un giornalista del team, Parker, ha ricevuto una e-mail dal tono molto blando con un collegamento nel testo. Era dall’esercito. Conteneva le foto.
Successivamente abbiamo anche lavorato con i sopravvissuti per decidere quali pubblicare. Tutte quelle che sono state rese pubbliche hanno ricevuto il permesso dei familiari delle vittime, volevamo essere il più rispettosi possibile nei loro confronti che avevano avuto un ruolo così importante nell’ottenerle.
Perché sono così importanti?
MB L’esercito americano non voleva che quelle foto fossero pubblicate perché temeva che si ripetesse un altro Abu Ghraib. Questo ha impedito al pubblico di conoscere veramente l’orrore di ciò che è accaduto quel giorno. A sua volta, ha portato a una minore possibilità di intervenire in modo informato chiedendo che fossero riconosciute le responsabilità di questi omicidi. Le foto sono invece una prova molto potente e ciò che mostrano è davvero scioccante: donne e bambini in posizioni completamente indifese. Abbiamo cercato di scoprire da queste foto se qualcuno dei presenti potesse rappresentare una minaccia per i marines. Una delle domande aperte era infatti se tra le persone uccise quel giorno ci fossero degli insorti. Ma non abbiamo trovato nulla. Le abbiamo anche inviate a un esperto forense, in particolare una che ritrae una madre, Asmaa Salman Raseef, che tiene il braccio intorno al il figlio Abdullah di quattro anni con la faccia premuta a terra nell’angolo di un soggiorno. E lui ha determinato che chiunque gli abbia sparato era in piedi sopra di loro ed era molto vicino e quindi sapeva che stava uccidendo una donna e un bambino.
“Le foto sono invece una prova molto potente e ciò che mostrano è davvero scioccante: donne e bambini in posizioni completamente indifese”
In questi anni avete ascoltato entrambele parti sia i marines sia i sopravvissuti e i parenti delle vittime, come è andata?
MB Abbiamo sentito decine di marines coinvolti che non avevano mai parlato prima con i giornalisti (39 su 150 contattati, ndr). Alcuni hanno lottato a lungo contro la tossicodipendenza, con problemi di salute mentale o disturbi da stress post-traumatico. Altri erano in un momento completamente diverso delle loro vite e non hanno affrontato niente di tutto questo. Molti però stanno ancora cercando di razionalizzare quello che è successo quel giorno. Cercano ancora una spiegazione che vada oltre all’avere ucciso in modo consapevole donne e bambini. Ascoltare la loro posizione è parte del nostro lavoro che è mettersi al servizio delle persone e avvicinarsi il più possibile alla verità di quello che è accaduto in quei giorni. Per quanto riguarda i parenti delle vittime la nostra inchiesta è stata molto importante perché la giustizia non ha fatto quello che avrebbe dovuto fare. È stato scioccante scoprire quanto poco sapessero sugli esiti dell’indagine dell’esercito. E quindi una parte del nostro lavoro ha previsto di chiedere se volessero che condividessimo con loro quanto scoperto. Le interviste ai sopravvissuti poi sono state molto dure, molto sincere ed emotivamente intense. Mi ha onorato il fatto che qualcuno abbia scelto di condividere quella profondità di emozioni con me come reporter, come essere umano. Sono stati i momenti più difficili. Tuttavia, ci tengo a precisare che quello che ho provato io è davvero piccolo e insignificante rispetto a quello che hanno vissuto loro.
© riproduzione riservata