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Ma davvero la Mostra del cinema di Venezia ha dimenticato “Le mani sulla città”?

Franco Rosi riceve il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1963 per il film "Le mani sulla città" © Biennale di Venezia, pubblico dominio

Sarebbe passato sotto silenzio il 60esimo dell’assegnazione del Leone d’oro a Francesco Rosi per un film epico e attualissimo, forse più oggi che nel 1963. Il racconto del sacco urbanistico che stringeva l’Italia nella morsa di un cemento che non conosceva parte politica ci riguarda ancora. Far finta che non sia così è un errore

Non lo ha fatto l’ottantesima edizione della Mostra del cinema di Venezia (a meno di abbagli), lo facciamo noi qui su Altreconomia: ricordiamo noi il Leone d’oro assegnato sessant’anni fa a Francesco Rosi per un film epico e ancora attuale. Anzi, forse più attuale oggi rispetto al 1963: “Le mani sulla città”.

Non abbiamo idea del perché un anniversario simile sia stato dimenticato. Fu ricordato nel 2013, 50 anni, ma non per questo possiamo decidere di non farlo oggi. Men che meno in un’estate in cui si sono verificati oltre 70 eventi naturali estremi, frutto delle nostre mani sulla natura (o forse sarebbe il caso di dire cazzotti). Una dimenticanza che forse è l’ennesimo sortilegio che ci regala il cemento. O forse chissà. Sta di fatto che la macchina dell’oblìo vince ancora e questo aiuta a togliere dal dibattito temi scomodi, ma sempre più attuali.

Francesco Rosi parlava del sacco urbanistico che stringeva l’Italia nella morsa di un cemento che non conosceva parte politica, che faceva della corruzione la sua regola e della deroga ai piani urbanistici la sua legge. Intrecciava il cemento con un potere politico corrotto e gradasso che senza sensi di colpa comprava consenso a suon di banconote (“Avete visto come si fa la democrazia?”), scambiava favori con i potenti, usava a proprio vantaggio le persone più fragili.

Oggi ci siamo lasciati tutto ciò alle spalle? Nessuno più mette le mani sulle città? Tutta la politica si guarda bene dal parlare di suolo come di “squallida estensione di terreno”? Le leggi speciali con le quali sfondare ambiente e natura hanno smesso di esistere? L’ipocrisia di un potere politico che sventolava “mani pulite” pur sapendo quanto sporche fossero, è cosa superata? Il film di Rosi racconta l’arroganza del potere vincendo l’usura del tempo perché quell’arroganza è viva tutt’oggi, semplicemente con vesti e colori diversi.

Anzi, mai come oggi (sommersi dalla tragedia del cambiamento climatico e da un’incultura ecologica in politica) quel film andava non solo ricordato ma anche fatto rivedere e onorato di un dibattito civile, magari duro, graffiante, controverso, ma necessario. Quel 1963, quel film, quel coraggio di Francesco Rosi non possono essere censurati e passare sotto silenzio. Non basta averlo celebrato nel 2013 e ora più.

Bisogna fare attenzione perché il silenzio è una forma di repressione e contro ogni silenzio dobbiamo combattere, come ci ha ricordato recentemente il sociologo Richard Sennett in un’intervista pubblicata su la Repubblica in occasione dell’ultima Biennale di Venezia.

Trovo allora questa dimenticanza non solo grave e inopportuna ma una cesura con un passato che non si vuole né ricordare, né avere il coraggio di mostrare ai giovani. Un taglio del genere non può che facilitare l’assoluzione di chi nel presente continua a comportarsi come gli Edoardo Nottola (il consigliere comunale e imprenditore immobiliare del film di Rosi) di quel passato. E ce ne sono tantissimi di Nottola in giro, oggi. Tagliare i cordoni con la storia aiuta a non dirsi recidivi. Ovviamente non è così. Le mani sulla città le abbiamo messe allora e continuiamo a metterle con le stesse o simili abilità e perfino con nuove e più raffinate tattiche.

Se ieri lo sviluppatore immobiliare senza scrupoli e in accordo con il potere politico sbandierava il diritto a una casa con il bagno per aggirare le già blande regole urbanistiche e fare tutto il profitto possibile, scaricando sullo Stato tutta la spesa (il “cinquemila per cento di profitto”), oggi sbandierano la sostenibilità in ogni cosa che fanno, nella favola dei capannoni a emissione zero, nelle costruzioni che piantano boschi per compensare o nelle certificazioni eco-edilizie che di eco hanno nulla e di consumo di suolo sempre moltissimo.

Oggi si usa il trucco della fretta della transizione energetica per ottenere carta bianca su qualsiasi deroga o ampliamento di stabilimenti, edifici e capannoni. Per degradare suoli e agricolture. È così diverso da allora? Si invoca la semplificazione per ridurre a un nulla la valutazione ambientale e così via. È tutto così cambiato da ciò che denunciava quel film, al punto che addirittura possiamo permetterci il lusso di non ricordarlo all’ottantesima Mostra del cinema di Venezia in occasione del suo sessantesimo anniversario? Ovvio che no ma pare proprio che lo abbiamo fatto.

In qualche modo anche questo è una forma di negazionismo: tranciare con il passato, mettere sotto il tappeto le testimonianze profetiche di chi disvelò, con successo incontrovertibile, corruzioni politiche e culturali che continuano ad avere la necessità di essere lette e rilette criticamente oggi, obbligandoci a vederci allo specchio per elaborare il lutto di non aver fatto quel che andava fatto, per non averci fatto entrare in un’altra storia. E invece la cancellazione del ricordo libera tutti. Soprattutto sgrava i decisori politici e quanti li influenzano dei pesi che non sarebbero probabilmente in grado di gestire: meglio non ricordare così non bisogna dire. Senza ricordi è più facile sentirsi innocenti e abbagliare anche tutti noi, giovani compresi. Ecco perché ricordiamo qui, instancabilmente, quelle mani sulla città che ancora nessuno ha tolto, anche se non lo dice.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)

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