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L’ultimatum e le bombe sulla testa dei civili di Gaza. La voce delle Ong

© Omri Greenberg - Unsplash

Israele ha ordinato alla popolazione del Nord della Striscia di abbandonare l’area ma trasferire 1,1 milioni di persone in così poche ore è impossibile, come spiega Dina Taddia della Ong WeWorld. I valichi sono chiusi e nessuno può uscire dal Paese. “Auspichiamo che la comunità internazionale faccia pressione sul governo di Tel Aviv”

L’ordine di evacuazione entro 24 ore dal Nord della Striscia di Gaza, diramato dalle forze politiche e militari di Israele, coinvolge oltre 1,1 milioni di uomini donne e bambini che hanno solo poche ore per lasciare le proprie case, senza alcuna garanzia di sicurezza o di potervi fare ritorno. “Siamo di fronte alla richiesta di un trasferimento forzato di civili, azione considerata crimine di guerra secondo il diritto internazionale umanitario; come tale, l’ordine di evacuazione deve essere revocato”, dice ad Altreconomia, Dina Taddia, consigliera delegata della Ong WeWorld, organizzazione presente a Gaza e in Cisgiordania dal 1992.

“È praticamente impossibile evacuare così tante persone in un lasso di tempo così breve. Non solo perché il Nord è l’area più densamente popolata della Striscia, ma anche perché non ci sono le infrastrutture per farlo: in questi giorni sono state bombardate le principali vie di comunicazione, rendendo ancora più complessa la fuga per chi decide di lasciare le proprie case”, continua Taddia.

Osservare la carta geografica e tenere presenti alcuni dati può aiutare a comprendere meglio la gravità della situazione: la capitale, Gaza City, si trova proprio nel quadrante settentrionale e la prima periferia della città si trova ad appena cinque chilometri (dieci minuti d’auto) dal confine con Israele. Non bisogna poi dimenticare che la Striscia è uno dei territori più densamente popolati al mondo: circa 2,3 milioni di persone vivono stipate in un’area lunga poco più di quaranta chilometri e larga 16 nel punto più largo (al Nord) e appena cinque in quello più stretto, nel Sud.

A rendere ancora più drammatica la situazione è poi il fatto che non c’è modo di lasciare la Striscia: “I due valichi di frontiera, quello di Erez a Nord con Israele e quello di Rafah a Sud con l’Egitto, sono al momento chiusi -ricorda la delegata di WeWorld-. E anche se quest’ultimo venisse aperto non ci sarebbe comunque un sistema di accoglienza in grado di far fronte alle esigenze di un numero così elevato di persone. Come organizzazione umanitaria condanniamo l’uso della violenza contro i civili. Condanniamo con forza sia i crimini orrendi commessi da gruppi armati ai danni di uomini, donne e bambini israeliani sia l’uso sproporzionato della forza militare contro i civili palestinesi di Gaza”.

L’evacuazione forzata rappresenta un rischio soprattutto per le persone gravemente malate o ferite nel corso dei bombardamenti degli ultimi giorni ricoverate negli ospedali del Nord di Gaza. Il portavoce dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Tarik Jasarevic, ha dichiarato che diversi pazienti sono attaccati a sistemi di supporto vitale (come i ventilatori meccanici) e di conseguenza “spostare queste persone rappresenta una condanna a morte. Chiedere agli operatori sanitari di farlo è oltremodo crudele”. Jasarevic ha poi aggiunto che i due principali ospedali nel nord di Gaza hanno già superato la loro capacità complessiva di 760 letti e ha lanciato l’allarme sulla carenza di sangue e sulla mancanza di diversi farmaci, tra cui antidolorifici e soluzioni per la dialisi. “I corridoi degli ospedali sono stracolmi. I cadaveri si stanno accumulando perché non c’è più spazio negli obitori”, ha aggiunto.

“I jet da combattimento stanno demolendo intere strade, isolato per isolato -ha dichiarato Matthias Kennes, capo missione di Medici Senza Frontiere a Gaza-. Non c’è posto per nascondersi, né tempo per riposare. Alcuni luoghi vengono bombardati per notti consecutive. I nostri colleghi medici vanno al lavoro senza sapere se rivedranno le loro case o le loro famiglie. Ma dicono che questa volta è diverso: dopo cinque giorni, ci sono già stati 1.200 morti. Che cosa può fare la gente? Dove possono andare?”. L’organizzazione medica ha lanciato un appello affinché vengano creati spazi sicuri e per consentire l’ingresso di forniture umanitarie a Gaza per garantire assistenza medica a feriti e malati. “Negli ospedali del ministero della Salute, il personale medico riferisce di essere a corto di anestetici e antidolorifici -riferisce Darwin Diaz, coordinatore medico di Msf a Gaza-. Abbiamo trasferito le forniture mediche dalle nostre riserve di emergenza all’ospedale di Al-Awda. Abbiamo utilizzato tre settimane di scorte in tre giorni”.

“Il nostro auspicio è che la comunità internazionale faccia pressione sul governo israeliano affinché cessino i bombardamenti e venga ritirato l’ordine di evacuazione -riprende Dina Taddia-. Per questo invitiamo il governo italiano, l’Unione europea e le altre nazioni occidentali e arabe a chiedere l’immediata revoca dell’ordine di evacuazione”.

Anche l’Associazione delle Ong italiane (Aoi), Cini e Link 2007 (rete che riunisce alcune storiche Ong italiane tra cui Amref, Coopi, Intersos, Medici con l’Africa Cuamm e Soleterre) hanno lanciato un appello per chiedere che sia revocato l’ordine di evacuazione: “A Gaza non esiste un luogo sicuro. Non c’è elettricità né benzina. Questa richiesta da parte di Israele è irragionevole, non è possibile spostare oltre un milione di persone in poche ore. Sostenere le ragioni di questa decisione oggi significa lasciare indietro civili innocenti che hanno diritto ad essere protetti, inclusi i più vulnerabili tra cui anziani, sfollati, degenti, e centinaia di migliaia di bambini continuano le organizzazioni”.

In tutta la Striscia le condizioni di vita sono sempre più difficili: da un lato per i continui bombardamenti (che avrebbero causato circa 1.800 vittime e migliaia di feriti), dall’altro per il blocco imposto da Israele che impedisce l’ingresso di acqua, energia elettrica, viveri e medicinali. “Il nostro ufficio, che si trova in un’area relativamente tranquilla, è stato danneggiato -spiega Taddia-. Ma siamo preoccupati soprattutto per i nostri colleghi: sei internazionali e quaranta operatori locali. Oggi (venerdì 13 ottobre, ndr) non siamo ancora riusciti a contattarli. Sono molto preoccupati, soprattutto per i loro figli: non sanno dove andare e le comunicazioni con l’esterno sono sempre più difficili. Una delle preoccupazioni che hanno espresso è quella di restare isolati e che il mondo li abbandoni al loro destino”.

L’altra principale preoccupazione è legata alla disponibilità idrica: l’interruzione delle forniture idriche da Israele significa che più di 650mila persone non hanno accesso ad acqua potabile. I pozzi presenti nella Striscia, infatti attingono da falde acquifere che nel corso degli anni sono stati contaminati dall’acqua marina ed è necessario l’uso costante di desalinizzatori: “Ma senza elettricità non possono funzionare e quando si spegneranno gli ultimi generatori a gasolio anche questa opzione verrà meno -conclude Dina Taddia-. La sola certezza che abbiamo è che se l’assedio continuerà la popolazione di Gaza correrà non solo il rischio di morire sotto le bombe ma anche di stenti”.

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