Diritti
L’ultima spiaggia
Le inchieste sul G8 di Genova sono sintomo del cattivo stato di salute della giustizia in Italia secondo Enrico Zucca, il Pm dei processi Diaz e De Gennaro “Lo scopo del processo è accertare singole responsabilità. Ma la nostra tradizione…
Le inchieste sul G8 di Genova sono sintomo del cattivo stato di salute della giustizia in Italia secondo Enrico Zucca, il Pm dei processi Diaz e De Gennaro
“Lo scopo del processo è accertare singole responsabilità. Ma la nostra tradizione culturale giuridica ritiene che il processo miri all’accertamento della verità: la verità storica è il fondamento dell’accertamento della responsabilità. Ogni condanna, per essere percepita come ‘giusta’, deve basarsi sull’accertamento rigoroso dei fatti”.
Genovese, 54 anni, Enrico Zucca oggi è sostituto procuratore generale a Genova, dopo 25 anni di magistratura. È il pubblico ministero (Pm) del processo per l’assalto alla scuola Diaz del 2001 e di quello contro l’allora prefetto Gianni De Gennaro per induzione alla falsa testimonianza sempre sui fatti di Genova. Tra maggio e giugno, le sentenze di secondo grado dei due processi hanno ribaltato quelle di primo grado, confermando quindi le accuse mosse da Zucca e i suoi colleghi e condannando agenti e vertici della polizia italiana:
25 condannati per la Diaz su 27 imputati, un anno e 4 mesi a De Gennaro.
Dottor Zucca, che cosa accadde a Genova nel 2001?
A Genova è mancata la più elementare tutela dei diritti. È accaduto ciò che non doveva accadere. Ancora oggi affermare questa semplice verità è una bestemmia.
Le garanzie democratiche si sono mostrate così fragili, ma non in presenza di un grave attacco al sistema, come accade ad esempio nel caso del terrorismo.
La contestazione violenta a Genova non era certo tale da mettere in crisi il sistema: affermare il contrario è offendere la memoria di quei gravi attentati alla vita della nazione che hanno patito altri Paesi, proprio dal 2001 in poi.
Non era invece scontato che le forze dell’ordine si sarebbero comportate così. Qualcuno individua il problema soprattutto nel comando e nella direzione, anche politica. Quel che è certo- e più preoccupante per il futuro- è che le forze dell’ordine hanno mostrato, in una situazione di pressione “relativa”, una capacità di devianza che è ingenuo pensare sia sorta all’improvviso e come contingente reazione.
È stato complicato indagare sulla Polizia?
Mi sono sempre sforzato di evidenziare come i processi ai poliziotti sono difficili ovunque ed hanno una loro specificità. Il corpo di Polizia si sente attaccato come tale e reagisce compatto reclamando copertura e solidarietà dagli organi dello Stato. Nel nostro caso come non mai, anche per il coinvolgimento di personalità di vertice, il procedere è stato visto come uno scandalo: un atto contro natura. L’azione della magistratura non era vissuta come azione dello Stato che esercitava il controllo, ma di singoli devianti magistrati contro l’istituzione. L’isolamento di quei magistrati aumentava tale percezione. La mancanza di organi indipendenti di controllo all’interno della Polizia ha impedito ogni processo di autorevisione critica. Se non v’è coscienza della malattia la guarigione si presenta difficile.
Il primo segno evidente è stato non solo la mancanza di collaborazione, a tutti i livelli, ma l’aperto boicottaggio dell’indagine e del processo, com’è da ultimo emerso impietosamente nelle conversazioni telefoniche intercettate.
I più gravi fatti commessi esprimono una devianza all’interno dei corpi di polizia che all’estero è chiamata “corruzione per nobile causa”, cioè l’abuso del potere non per scopi personali, ma per conseguire un vantaggio istituzionale o di organizzazione. Alla base c’è l’idea diffusa per cui è giustificata la violazione di regole pur di assicurare alla giustizia i soggetti ritenuti colpevoli. Questo legittima addirittura la creazione di prove false. La conseguenza più ovvia è che il fine “istituzionale” genera istintivamente una copertura dell’intero corpo di Polizia, in un regime di reciproco ricatto omertoso.
Il ferito più grave nel blitz della Diaz, Mark Covell, deve la sua vita all’intervento di un poliziotto, un graduato, che ha impedito ai suoi colleghi di infierire ancora sulla vittima. Questo è il poliziotto che dovrebbe rappresentare la polizia, ma è rimasto sconosciuto, prigioniero del ricatto, nell’impossibilità di denunciare quei colleghi. E la polizia è stata invece rappresentata dalle trionfalistiche dichiarazioni di chi ha arrestato i feriti con prove fabbricate.
Stefano Gugliotta, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi: tutti casi che mostrano la difficoltà di pervenire all’accertamento delle responsabilità.
I casi sono emblematici e puntualmente sono costellati da favoreggiamenti, false testimonianze. Fanno riflettere in una duplice direzione, poiché ci si chiede se il G8 di Genova abbia fatto semplicemente emergere una prassi che accetta talora di violare i diritti dei cittadini con la convinzione di essere comunque dalla parte giusta. D’altro lato, in alcuni di questi casi i vertici della Polizia sono arrivati a prendere le distanze e in qualche modo a stigmatizzare l’accaduto, diversamente da Genova, su cui il silenzio e la rimozione sono imbarazzanti.
Eppure a Genova sono emersi fatti incontrovertibili. La posizione ufficiale della polizia è ancora il comunicato stampa sull’assalto alla Diaz, nel quale si parla di “ferite pregresse”. Non è seguita una scusa, non la revoca di quel comunicato bugiardo e offensivo per le vittime. Sarebbe stato il segno di una ristabilita fiducia e di un legame con i cittadini. Ma ci si pone davvero il problema di stabilire un legame di fiducia o si cerca solo di richiamare solidarietà e appoggio dal potere politico facendo leva sul proprio ruolo?
Gianni De Gennaro è stato condannato. Nel frattempo, è rimasto fino al 2007 capo della Polizia, ora è direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, e mai gli è mancata la fiducia di istituzioni e governo.
Il pubblico ministero non ha mai negato i meriti professionali e la statura del prefetto De Gennaro. Che è altro, però, dal sostenere che per il proprio alto ruolo si possano fare cose improprie, soltanto perché si ha di mira, ancora una volta, ciò che si ritiene l’obiettivo giusto.
Il sostegno delle istituzioni e quello del governo sono legittima espressione di volontà politica, ma rischiano di non rispettare nella sostanza l’altrettanto legittima autonomia del giudizio della magistratura, che si è espresso nella sua definitiva istanza di merito, cioè di accertamento del fatto. Taluno si nasconde dietro giri di parole, per ovviare all’imbarazzante situazione, definendo sconcertante il giudizio di appello perché, senza elementi nuovi, ha condannato dove prima si era assolto. Appunto, questo è il ruolo fisiologico dell’appello, correggere gli errori di valutazione del primo giudice, senza aggiungere nulla.
Colpisce nelle sentenze di primo grado l’evidente adozione di criteri di valutazione diversi da quelli che valgono per qualsiasi cittadino, a essere intaccata è la stessa idea di uguaglianza di fronte alla legge. Non è facile ribaltare una sentenza di assoluzione, eppure giudici diversi hanno concordemente ribaltato tutte le sentenze sui fatti del G8. Invece di riflettere sul perché i giudici del primo grado non sono riusciti a trarre le conseguenze dovute dal loro accertamento, si concepisce come stortura l’intervento dei giudici di appello. I primi giudici hanno probabilmente percepito un’eccessiva pressione, e la tensione istituzionale ha generato una cautela otre il dovuto. Ma era inevitabile che in appello non potessero reggere sentenze così deboli, con criteri di valutazione così fuori dal diritto comune. Certo il sistema ha riacquistato la sua credibilità, ma è sembrata quasi l’ultima spiaggia, nella generale indifferenza a fronte delle violazioni commesse al G8.
Qual è lo stato di salute della giustizia italiana?
Tutti i sistemi penali sono in crisi, sostanzialmente con gli stessi problemi di gestione dei complessi fenomeni tipici delle società avanzate. Alcune dinamiche della dialettica politica nostrana in questa fase hanno però ridotto i tradizionali approcci e impostazioni in tema di giustizia a un problema di potere, e ciò impedisce di concentrarsi sui reali difetti del sistema e sulle soluzioni adeguate per aumentarne la qualità e l’efficienza.
C’è un fenomeno generale per cui la giustizia penale e le politiche di repressione sono entrate ormai nel quotidiano bagaglio della lotta politica, tanto da diventare oggetto di propaganda dei vari governi, anche a colpi di statistiche. È per questo che l’Italia sta adottando, ora e in ritardo, strumenti che si sono rivelati per lo più inefficaci. È il caso del pacchetto sicurezza o dei provvedimenti che l’hanno preceduto, espressioni di un rigore repressivo che limita la discrezionalità del giudice, a fini più di immagine per tranquillizzare il cittadino che di reale efficacia. Sono impostazioni che all’estero sono state adottate oltre dieci anni prima e chi ha sperimentato questo passaggio prima di noi sta tornando indietro.
Il più pericoloso percorso inverso è però quello annunciato. Abbiamo un baluardo e delle specificità, che sono le uniche cose che si pensa di abolire: l’indipendenza del Pm e l’obbligatorietà dell’azione penale. L’evoluzione dei sistemi giuridici mostra una tendenza univoca ad aumentare l’autonomia e l’indipendenza reale dell’organo dell’accusa e non a caso il nostro sistema è concepito come il più avanzato. Lo si percepisce proprio nei processi scomodi per ogni governo, come quelli ai poliziotti e agli stessi apparati dello Stato.