Diritti / Opinioni
L’orrore della tortura non riguarda solo le zone di guerra
Sebbene sia universalmente condannata, viene praticata in più di cento Paesi. E le vittime restano spesso senza assistenza. La rubrica di Gianfranco Schiavone
Le raccapriccianti violenze sulla popolazione civile compiute nella guerra in Ucraina ci ricordano che l’uso della violenza estrema e della tortura è una realtà ben presente e diffusa nel mondo contemporaneo. Lo è nelle decine di conflitti attivi nel mondo ma anche, in assenza di guerra, nella gestione ordinaria del potere da parte di gran parte dei regimi autoritari. Sul piano formale viene universalmente ripudiata: la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti del 1984 è stata ratificata da ben 163 Paesi sui 195 riconosciuti dalla comunità internazionale. Tuttavia, secondo Amnesty International, gli Stati che praticano la tortura nonché trattamenti inumani e degradanti sono non meno di 112. Tra essi, come è evidente, rientrano dunque anche larga parte degli stessi Paesi che hanno sottoscritto la convenzione Onu, ma che la violano sistematicamente.
Anche se non tutte le vittime di tortura nel mondo sono migranti, la fuga per sottrarsi a un rischio di subire questa forma di violenza, oppure pene e trattamenti inumani e degradanti rappresenta una delle principali ragioni di migrazione forzata.
Quegli stessi trattamenti da cui si cerca riparo vengono molto spesso subiti dopo la fuga nei cosiddetti Paesi “di transito” a seguito di respingimenti alle frontiere, detenzione nei campi, tratta e sfruttamento estremo, riduzione in schiavitù. Poiché la tortura è un’esperienza che determina conseguenze profonde e a lungo termine nella vita della persona che la subisce, il tema della riabilitazione delle vittime è una questione cruciale.
Secondo la citata convenzione Onu “ogni Stato Parte, nel proprio ordinamento giuridico, garantisce alla vittima di un atto di tortura il diritto ad una riparazione e a un risarcimento equo e adeguato che comprenda i mezzi necessari ad una riabilitazione la più completa possibile”. Accedere a misure di riabilitazione (ovvero all’insieme degli interventi di natura medica e psico-sociale finalizzati a permettere alla vittima di tortura di riprendere in mano i fili di una vita spezzata dalla violenza e a inserirsi nella nuova società) è quindi un diritto delle vittime e un obbligo per gli Stati.
Solo quattro Regioni italiane hanno recepito le linee guida del ministero della Salute per la presa in carico e la riabilitazione delle vittime di tortura
L’Italia ha un ritardo storico impressionante in questo campo: dopo decenni di silenzio solo con il decreto legislativo 18/2014 il legislatore ha disposto l’emanazione di linee guida per la presa in carico e la riabilitazione delle vittime di tortura attraverso indicazioni vincolanti per la pubblica amministrazione (specie per il servizio socio-sanitario). Il ministero della Salute, recependo le indicazioni di una commissione tecnica, ha emanato le linee guida con un decreto del 3 aprile 2017. Queste prevedono disposizioni su come agire al fine di favorire l’emersione delle conseguenze traumatiche della violenza, sul trattamento dei disturbi psichici e fisici conseguenti alle torture da parte del sistema sanitario, sui criteri e modalità con cui redarre le certificazioni mediche e psicologiche utilizzabili in sede di esame delle domande di asilo.
A metà aprile 2022 un’importante ricerca curata da Medici senza frontiere dal titolo “Attuazione delle linee guida per l’assistenza e riabilitazione delle vittime di tortura e altre forme di violenza: mappatura ed analisi” fa il punto della mancata attuazione delle linee guida del ministero della Salute. Il quadro che emerge dalla ricerca è molto amaro; anche se “le linee guida sembrano dare direttive chiare rispetto alla rete da attivarsi sia per l’emersione, sia per l’emersione delle vittime di tortura […] la loro attuazione a livello regionale continua ad essere estremamente limitata” e le pur molte esperienze locali che cercano di colmare il vuoto “hanno il grosso limite di fondarsi per lo più su iniziative individuali e su reti informali di collaborazione”. Solo quattro Regioni italiane hanno recepito con proprio decreto, le linee guida; in altre cinque ci sono alcune sperimentazioni positive ma molto parziali, mentre nel resto del Paese v’è ancora più o meno il nulla. Gli ultimi rimangono dunque ultimi, nonché invisibili.
Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni. Già componente del direttivo dell’Asgi, è presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste
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