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L’Irpinia, trent’anni dopo
23 novembre 1980, la terra trema in Irpinia. La “ricostruzione” mai terminata ha portato una montagna di soldi ma un modello di sviluppo senza futuro La sbarra che chiude il parcheggio riservato agli operai del Calzaturificio San Mango, nell’area industriale…
23 novembre 1980, la terra trema in Irpinia. La “ricostruzione” mai terminata ha portato una montagna di soldi ma un modello di sviluppo senza futuro
La sbarra che chiude il parcheggio riservato agli operai del Calzaturificio San Mango, nell’area industriale di San Mango sul Calore, si è abbassata per sempre da quasi vent’anni. Vetri rotti e erbacce narrano invece lo stato d’abbandono dello stabilimento delle Amiderie italiane, a Nusco: la fabbrica, chiusa ormai da una decina di anni, tornò a far parlare di sé nel 2007, quando Guido Bertolaso -in veste di Commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania- l’aveva individuata come un possibile deposito provvisorio delle cosiddette “ecoballe”.
San Mango sul Calore e Nusco (nella foto in alto) sono due località in provincia di Avellino: la prima è sconosciuta, mentre la seconda ha dato i natali al più famoso uomo politico locale, Ciriaco De Mita. Le accomuna il terremoto dell’Irpinia, che il 23 novembre 1980 investì entrambe, insieme a molte altre comunità nelle province campane di Avellino e Salerno, a Potenza, in Basilicata, e 14 comuni della provincia di Foggia, causando quasi 3mila morti (vedi box). A trent’anni dalle scosse siamo tornati in Irpinia. A un anno e mezzo dal terremoto de L’Aquila, vale la pena raccontare una “ricostruzione” mai terminata. Il dato che salta agli occhi è quello “contabile”: la Finanziaria del 2007 ha stanziato altri 157,5 milioni di euro (fino al 2024) per la prosecuzione degli interventi; e continuiamo a pagare anche un accisa di 75 lire su ogni litro di benzina, introdotta nel 1980 per far fronte all’emergenza. C’è, però, anche da guardare al territorio. Per questo le due “fotografie” di San Mango sul Calore e Nusco di questo reportage, sono esemplari: sono state scattate all’interno di due delle 20 grandi aree industriali realizzate nelle province di Avellino, Salerno e Potenza in base alla legge per la ricostruzione, la numero 219 del 1981. Realizzate grazie a finanziamenti pubblici, ha “accolto” imprenditori graziati da contributi a fondo perduto (al 75%).
Alle aziende sono andate quasi 3mila miliardi di lire. Sono una decima parte degli oltre 32mila che il Paese ha destinato complessivamente all’Irpinia, secondo l’ultima delibera della Corte dei Conti che s’è occupata del terremoto, la 21 del 2008.
“Un punto su cui tutti furono d’accordo nel dibattito precedente all’approvazione delle legge, è che la ricostruzione dovesse rappresentare un trampolino di lancio, per avviare una nuova fase di crescita per le aree interne” spiega Stefano Ventura, un giovane ricercatore che all’Università di Siena ha discusso nel 2009 una tesi di dottorato su “L’Irpinia dopo il terremoto. Le conseguenze sociali, politiche economiche, urbanistiche”. Ventura, nato nel 1980 a Teora (Av), uno dei borghi più devastati dal sisma, collabora con l’Osservatorio sul doposisma della Fondazione Mida (Musei integrati dell’ambiente, www.fondazionemida.it) di Pertosa (Salerno), per cui ha curato il rapporto Trent’anni di terremoti italiani (in uscita a fine novembre).
Anche se era un neonato, ha le idee chiare su ciò che successe dopo il terremoto: vennero dotate di infrastrutture ben 20 aree industriali (12 in Campania e 8 in Basilicata), anche se il 60,7% delle domande di insediamento era riferito a sole cinque di esse; “non vennero posti limiti né ai finanziamenti né alla tipologia di aziende che andavano a installarsi nell’area terremotata”, spiega Ventura.
Il primo stabilimento finanziato nell’ambito dell’articolo 32 della legge 219 (quello che invitava a individuare le “aree da destinare agli impianti industriali”) era operativo nel 1985 (era l’Eurosodernic, 1,591 miliardi di lire di contributi). I fondi erogati con l’articolo 32 hanno modificato radicalmente la struttura produttiva del territorio.
È cambiata la geografia produttiva e quella proprietaria: “La differenza più significativa tra le aziende presenti in provincia di Avellino dopo il 1985 era tra quelle a proprietà locale e quelle esterne -spiega Ventura-. Le prime, infatti, svolgevano attività produttive ‘conto terzi’, mentre le imprese esterne operavano ‘per conto proprio’”. Nel 1985, le imprese esterne avevano il 16% degli stabilimenti e il 26,5% degli addetti; solo 6 anni dopo, il 38,7% degli stabilimenti e il 62,4% degli addetti. Grandi e medi gruppi industriali si sono arrampicati tra le montagne dell’Irpinia, attratti dalla “chimera” di un’industrializzazione “supportata” dalle casse dello Stato. Per fare solo alcuni esempi, il gruppo Ferrero, i cui due stabilimenti di Porrara (Av) e Balvano (Pz) sono ancora aperti, ha ricevuto quasi 80 miliardi di lire (vedi l’articolo a p. 39); Parmalat, quasi 9 miliardi (nel 2005 lo stabilimento è passato al gruppo Vicenzi, marchio Mister Day); 35 miliardi sono andati alla Tubi Sud (oggi di proprietà di ArcelorMittal, il primo gruppo al mondo nella produzione di acciaio). Tantissimi miliardi ad aziende che poi sono state travolte da scandali e bancarotte, come la Italgrani (oltre 36 miliardi di lire).
Negli uffici del Consorzio per l’Area di sviluppo industriale (Asi, www.asi-avellino.com) di Avellino, un ente pubblico economico, mi accoglie l’ingegner Giuseppe Tolino. Ha elaborato per noi un database sulle 8 aree industriali presenti nel territorio provinciale, per fotografare la situazione attuale in ogni “lotto”. Nel riquadro dedicato allo “stato dell’azienda”, le variabili sono “chiusa”, “in produzione”, “in costruzione”. In alcuni casi, però, c’è scritto “lotto libero”. Significa che in quei lotti dall’80 ad oggi, nessuno si è mai insediato. Restano piattaforma di cemento, dotate di tutte le infrastrutture. “La situazione peggiore è a Nerico e a Calitri. Nel primo caso, ci sono due lotti mai occupati. Nel secondo, c’è un lotto diviso tra tre aziende. E un altro è libero” racconta Tolino. Nell’area industriale di Nerico su sei lotti, per complessivi 110mila metri quadri, solo uno è attualmente occupato. E l’area di Calitri è a pochi chilometri. Trent’anni fa, al momento di decidere “dove” realizzare le aree industriali ha prevalso la logica “un campanile una ciminiera”, ricostruisce Ventura. Non si è tenuto conto di “risorse” scarse, come suolo o il corso dei fiumi Sele e Ofanto. Le montagne e le golene sono state sbancate per far spazio alle aree industriali. Legambiente, in un dossier del 2005, fa i conti: le aree industriali hanno preso il posto di 323 ettari di suolo agricolo in Campania, di 234 in Basilicata. Il tutto per far spazio a “false imprese e falsi imprenditori” (secondo il titolo di un libro del 1993 di Salvatore Casillo). False imprese perché nessuno rischiava del proprio: in base all’articolo 32, per non vedersi revocato il finanziamento gli imprenditori si impegnavano a raggiungere nell’arco di 4 anni un livello di produttività o di occupazione del 75% rispetto a quanto approvato nei progetti. A quel punto, poteva ottenere il trasferimento in proprietà del lotto assegnato e già occupato. Ma ciò era difficile per chi non aveva l’idea di produrre. A risolvere la questione ci pensò Pierluigi Bersani. Con la legge 266 del ‘97, bastava il certificato di collaudo e un’autocertificazione della ditta che dichiarava che tutto andava bene, ossia di aver raggiunto al 50% (e non più al 75%) uno dei due obiettivi (e non entrambi) per ottenere -con i soldi dello Stato- il terreno dove -con i soldi dello Stato- era stato realizzato l’opificio. Nella colonna delle “note”, nel database di Tolino, c’è una sfilza di notazioni “ditta fallita”. E ciò significa, a volte, lunghi e noiosi percorsi giudiziari, e l’impossibilità di cercare un nuovo occupante per un lotto. Tolino mi parla, ad esempio, del braccio di ferro tra l’Asi e la curatela fallimentare del Calzaturificio San Mango (37,6 miliardi di lire, il contributo pubblico; 38.579 metri quadri di lotto abbandonato). Finché non sarà finito, non potrà realizzarsi il progetto di Oswald Zuegg di allargare la sua azienda nell’area industriale di San Mango. Zuegg occupa il lotto accanto a quello dell’ex calzaturificio (12,8 miliardi, il finanziamento). Oggi vorrebbe portare in Irpinia anche una linea d’imbottigliamento. L’“idea” di Zuegg me la confida Michele Di Napoli, per oltre trent’anni sindaco di Luogosano, dove insiste l’insediamento industriale. “Ci sarebbe voluta più oculatezza nell’individuare gli imprenditori che sono venuti nelle nostre zone”, dice.
3mila morti, la ricostruzione, l’interesse mafioso
I morti furono 2.998, i feriti 8.245. E oltre 234mila persone restarono senza casa. Il 23 novembre 1980 il “terremoto dell’Irpinia” colpisce 3 regioni, Campania, Basilicata e Puglia, e 687 Comuni in 8 Province.
La superficie complessiva interessata dal sisma è di 15.400 chilometri quadrati.
37 sono i Comuni dichiarati disastrati.
Prima ancora dello Stato (la legge sulla ricostruzione arriverà solo nel maggio del 1981), sono i clan camorristici a “segnalare” il proprio interesse per la sorte delle zone terremotate: l’11 dicembre 1980 viene infatti ucciso il sindaco di Pagani (Sa), Marcello Torre, “colpevole di non aver favorito i clan nell’affidamento degli appalti di rimozione delle macerie” scrive Legambiente.
È l’articolo 32 della legge 219 a prevedere l’industrializzazione dell’Irpinia. Nell’area del “cratere” avrebbero dovuto sorgere 228 fabbriche, per occupare almeno 13mila persone. Nel 2005, ne erano in produzione 142, che occupavano 6.997 persone.
Dolci sovvenzioni
La Ferrero in Irpinia dal 1985. Grazie a 80 miliardi di lire di contributi
Il terremoto in Irpinia traccia un sentiero che accomuna le storie dell’uomo più ricco d’Italia, Michele Ferrero (che con un patrimonio personale stimato di 17 miliardi di dollari, secondo la rivista Forbes è il 28° più ricco al mondo), e di 45 operai che in quest’autunno del 2010 rischiano di perdere definitivamente il posto di lavoro. Per Ferrero, il “raccolto” della legge 219/81 è doppio. Due dei 4 stabilimenti italiani dell’impresa dolciaria sono stati costruiti grazie ai contributi dei cittadini italiani. Gli aiuti di Stato sono andati a un gruppo che nel 1989 fatturava già 1.521 miliardi di lire. Nel 1991, l’azienda era passata già a 1.901 miliardi, e il contributo della controllata Ferrero Sud (poi incorporata dalla casa madre alla metà degli anni Novanta) era pari a 211 miliardi. I due stabilimenti sono quelli di Porrara, vicino a Sant’Angelo dei Lombardi (Av), dove si producono Nutella, Duplo, Tronki e Kinder Bueno, e Balvano, in provincia di Potenza.
Quest’ultimo è un sito che è finito nelle carte della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla ricostruzione: la Giunta regionale della Basilicata aveva stabilito la realizzazione dell’area nella zona adiacente allo svincolo per Balvano del raccordo autostradale Potenza-Salerno. “Il termine ‘adiacente’ -riporta Legambiente in un dossier del 2005- viene interpretato come ‘distante circa 10 chilometri’, e l’area pianeggiante risulta in realtà un mezzo pianoro, che si raggiunge attraverso un passo, superando due tornanti e scendendo verso valle”. Ed è a 850 metri sul livello del mare. “Le caratteristiche naturali del territorio hanno condotto ad interventi di sbancamento di grandi dimensioni della montagna, alla costruzione di impianti di sollevamento dell’acqua al servizio delle esigenze industriali, alla realizzazione di infrastrutture pesanti in zone prive di qualsiasi collegamento”. La Commissione risponde così alla domanda “perché questa localizzazione?”: “L’unica azienda che avesse fatto domanda d’insediamento a Balvano, la Ferrero Dolciaria, effettuava precisa richiesta per insediarsi ad una certa altitudine, considerata ottimale per la lievitazione delle merendine monodose”.
Da Balvano a Conza della Campania. In Alta Irpinia, Conza è uno dei paesi completamente distrutti dal terremoto. Nell’area industriale di Conza della Campania ha operato, fino all’estate del 2009, la Sivis (Società italiana vetro isolante sicurezza). Una fabbrica che oggi si aggiunge all’elenco delle “industrie fantasma”, dopo aver ricevuto quasi 6 miliardi di lire di contributo. “È stata una delle ultime ad aprire tra quelle ammesse a contributo della legge 219, nel 1998 -racconta Antonio Casciano, operaio con 8 anni di anzianità alla Sivis-. Negli ultimi due anni abbiamo realizzato commesse importanti, anche per l’estero: abbiamo costruito le facciate strutturali del palazzo di giustizia di Manchester; abbiamo prodotto i finestrini del treno veloce che attraversa Belgio e Olanda. Eravamo all’avanguardia. Poi, nel giro di qualche mese la situazione è crollata. Ci hanno detto che erano maturati 7 milioni di euro di debito, in due anni”. Il 31 agosto 2009, per i 45 operai, è scaduto il periodo di un anno di cassa integrazione straordinaria. Entro fine anno Sivis potrebbe fallire.