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L’incontro possibile tra vittime e membri della lotta armata. Per una giustizia che sia riparativa
Adriana Faranda, in passato parte delle Br, e Agnese Moro, figlia di Aldo, ex presidente del Consiglio rapito e ucciso dai gruppi armati nel 1978, testimoniano il loro percorso di incontro durato oltre 15 anni. Un’occasione per riflettere su una “giustizia delle relazioni” capace di andare oltre la punizione “fine a se stessa”
Di fronte a oltre 400 persone Agnese Moro, figlia di Aldo, ucciso il 9 maggio 1978 dalle Brigate Rosse, disegna con fermezza i contorni del suo significato di giustizia. “Mi piace vederla come una strada per il ritorno. Io non dimentico cosa mi è successo e non lo considero meno terribile di allora. Dopo aver stretto la mano agli artefici di quel dolore, però, dopo aver potuto chiedere loro ‘perché l’hai fatto?’ so che tutto è tornato al suo posto. Siamo seduti uno vicino all’altro, siamo amici, ci preoccupiamo per le famiglie altrui: c’è stata una frattura ma oggi è necessario che sia così. Questa per me è il senso profondo della giustizia”. Al fianco di Moro siede Adriana Faranda, ex militante delle Brigate rosse e tra i componenti della cosiddetta “colonna romana” che organizzò il sequestro del padre. In quella vicinanza è racchiuso il senso dell’evento “Liberare perdonando” che si è svolto lo scorso sabato 14 maggio nell’auditorium di Città Studi a Biella.
L’obiettivo della serata organizzata dall’associazione HopeClub, attiva nel sostegno di chi vive condizioni di disagio sociale sul territorio biellese, in collaborazione con il Tavolo carcere, un ente che riunisce le associazioni che operano all’interno della Casa circondariale, era quello di guardare più da vicino il tema della giustizia riparativa. Perché proprio la “riparazione dell’irreparabile” è il centro del percorso iniziato nell’agosto 2007 da un gruppo di persone, sia vittime sia membri della lotta armata, guidati da padre Guido Bertagna, dell’ordine dei gesuiti, Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia all’Università Cattolica di Milano e dalla sua collega Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale.
Quell’estate Bertagna invia una lettera rivolta ad alcune persone con cui dalla fine degli anni Novanta si erano stretti rapporti di ascolto e vicinanza. “Serviva qualcosa in più dell’incontro individuale -racconta- così abbiamo rivolto a ognuno di loro un invito a un incontro collettivo”. Nella lettera intitolata “Spazio per una memoria condivisa” gli autori scrivevano che ritenevano “importante tentare di comporre un racconto, una polifonia, una narrazione che contenesse la pluralità delle memorie nella consapevolezza che soltanto parole fragili possono mettere in relazione, senza nascondere, distanze ineliminabili”. “Solo una volta che il gruppo ha cominciato a trovarsi -spiega il gesuita- ci siamo resi conto che il titolo era sbagliato: non esiste uno spazio per una memoria condivisa ma esiste una condivisione delle memorie. La verità dei vissuti non corrisponde necessariamente alla verità dei fatti e una giustizia che vuole ricostruire le relazioni deve tenerne conto. Quello che è accaduto è accaduto e non va in nessun modo minimizzato o dimenticato ma la condivisione delle memorie porta a cambiare il senso dei fatti che può arricchirsi, spostare il baricentro di quello che vale e modificare la risonanza dei vissuti. Quando si restituisce la parola al dolore qualcosa accade”. E qualcosa, a partire da quella lettera, è successo. “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto” (Il Saggiatore, 2015) ha raccontato oltre otto anni di incontri.
“Quando ho ricevuto la proposta di padre Guido inizialmente ho rifiutato -spiega Moro- ma mi sono resa conto che lui mi veniva incontro per qualcosa di diverso. Si era accorto del mio dolore e in 31 anni nessuno l’aveva mai fatto”. Un dolore “orribile, che urla e respinge” rispetto a cui il percorso della giustizia penale non aveva avuto nessun effetto. “Alla fine dei processi ero soddisfatta perché quelle condanne stabilivano che la violenza non è uno strumento legittimo per affermare un ideale ma dal punto di vista personale non avevano forma risarcitoria. Io non stavo meglio sapendo che un altro soffriva”. Sono quelle che Moro definisce le “scorie radioattive di un’ingiustizia piccola o grande che sia” che restano addosso sia alla vittima sia all’autore del reato. “Tre parole possono descriverle. L’immobilità dovuta al fatto che quel gesto, l’omicidio di mio padre, non è iniziato e finito in quel momento perché nella mente delle persone che l’hanno agito o subìto si ripete ogni giorno, in una sorta di dittatura del passato. Poi l’isolamento, perché ogni giorno sprofondi nei sentimenti di rancore, odio, assenza, dolore e rabbia. Sei a contatto con la parte non bella dell’animo umano. E poi la disumanizzazione, un meccanismo infernale che fa sì che una persona non viene più considerata una persona. Ma una funzione, un simbolo, una divisa. Chi l’ha disumanizzato, chi ha compiuto il gesto si considera una cosa. Ma anche io consideravo loro come mostri: indossavo la maschera della vittima, che in quanto tale può solo odiare”. Così l’incontro “riparativo” diventa lo strumento per prendersi cura di queste scorie.
Il gruppo comincia a incontrarsi regolarmente. Succede per otto anni, un’assemblea al mese, due incontri residenziali all’anno e una settimana di condivisione trascorsa in una casa in montagna nel periodo estivo. “Nel carcere il problema è sanare la colpa, quando sei in un percorso di giustizia riparativa lo sguardo non è più sul passato -racconta Faranda, che ha scontato oltre 15 anni di pena dal 1979 al 1984-. Il problema è la responsabilità che ti assumi non rispetto alla colpa, che è in qualche misura sterile, ma nei confronti della persona che incontri, con cui crei una relazione. È un percorso che libera perché guarda al futuro”. Un incontro che invece fa scoprire a Moro come è la “sofferenza che ci rende uguali”. “Mi sono accorta -racconta- che il dolore non era solo il mio. Quando hai fatto qualcosa di terribile pensando che lo facevi per i poveri, per ridare giustizia a chi non l’aveva avuta e poi ti rendi conto che hai solo ammazzato brave persone c’è un dolore terribile. Non solo in chi ha agito ma anche nelle famiglie, nei figli, nei fratelli, nei nipoti coinvolti in scelte che non sono le loro”.
Scelte “violente” nate, secondo Faranda, da un problema di “mancata assunzione di responsabilità”. “Seguivamo un’etica della convinzione e non un’etica della responsabilità -spiega- non ci importava cosa buttassimo per aria mentre cercavamo di raggiungere il nostro obiettivo e invece conta di più quello che scegli e come lo scegli, non dove vuoi arrivare. Oggi so che ci sono mille modi per portare avanti i tuoi valori”. La strada scelta dalle Br e più in generale dalle diverse sigle del panorama degli “Anni di Piombo” è stata invece la violenza. “Una scorciatoia ovvia, la strada più scontata ma anche quella più sbagliata. La storia umana è fatta di guerre e si dice che la storia la fa chi vince ma come diceva Nelson Mandela l’odio e il rancore è il veleno che bevi tu mentre credi che sia il tuo nemico a morire. Non solo la violenza non può creare qualcosa di migliore di quello che cerchi di cambiare ma modifica chi la attua e chi accetta la sua logica. Perché la logica è di per sé disumanizzante: non è solo il tuo nemico a diventare un oggetto, una divisa, ma tu diventi membro di qualcosa che è più grande di te, per cui non conti più niente e sei disumanizzato anche tu”. Dinamiche rispetto a cui il linguaggio diventa fondamentale e incide sulla volontà di seguire o meno una determinata via. “Allora c’era l’abitudine a guardare la realtà in modo binario: luce o tenebre, senza sfumature. Oggi sono sconvolta dal lessico bellico che si sta affermando: io non ho conosciuto la guerra ma ho accostato la sua logica fatta di analisi senza sfaccettature, senza possibilità di dialogo, come se le cose fossero definite una volta per tutte. La logica di guerra è un crinale: buoni e cattivi, giusto e sbagliato, eroi e mostri. Non si può uscire dal seminato perché se introduci elementi di dubbio allora stai dall’altra parte. Questa è una cosa che sto ritrovando nella riflessione quotidiana di oggi”.
Per Faranda, Moro, e tanti altri la giustizia riparativa è diventata così lo strumento per “rimettere al centro le relazioni che è il centro della comunità umana” che secondo l’ex membro delle Br è una giustizia “più vera perché è un percorso, che non finisce mai, che ti restituisce comunque la libertà dalla schiavitù del passato”. Per Moro è la possibilità di prendersi cura di quelle “scorie radioattive” che lascia un torto subito. “Oltre alle conseguenze oggettive, nel mio caso un corpo senza vita, che tutti vediamo c’è qualcosa di invisibile. La giustizia riparativa prende sul serio queste scorie radioattive che non sono inerti e non smettono da sole di dare problemi”.
Un’idea di giustizia tratteggiata anche dal professore Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, morto il 14 maggio 2022, che ha partecipato al percorso di incontro riparativo. Alle sue parole, contenute all’interno de “Il libro dell’incontro”, Bertagna affida la conclusione della serata. “Una giustizia che non si fermi all’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Né all’arido conteggio dei risarcimenti e delle sanzioni e nemmeno all’esteriorità di proclamati pentimenti, perdoni o non perdoni. Ma riesca in qualche modo a riparare il tessuto personale e sociale lacerato. E a migliorare il futuro di tutti. Questa giustizia è un ideale tanto impegnativo quanto ambizioso a cui non possiamo rinunciare se della giustizia vogliamo continuare ad avere, coltivare e promuovere un’idea degna del senso ultimo dell’essere umano”.
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