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“Life is a game”, il film documentario sul mondo dei rider e delle piattaforme

© Life is a game

Attraverso le storie di tredici ciclofattorini da tutta Europa, i due registi Laura Carrer e Luca Quagliato raccontano il funzionamento delle piattaforme e il peso, sempre più opprimente e dannoso, di dati e algoritmi. Un modello economico che può risultare dannoso. Non solo per i rider. Li abbiamo intervistati

Pioggia, un segnale fluorescente con la scritta lampeggiante, auto della polizia ferme con le sirene accese e al centro una rider, sola con la sua bici, ad attendere il prossimo ordine. È una scena già vista durante la pandemia, quando i rider erano considerati lavoratori essenziali al pari di poliziotti, infermieri e pochi altri, quella con cui si avvia alla conclusione il film documentario di inchiesta “Life is a game”, diretto dalla giornalista Laura Carrer e dal fotografo Luca Quagliato e presentato in anteprima al Festival internazionale del documentario visioni dal mondo di Milano. Proprio i fattorini ne sono i protagonisti: dalle interviste a 13 di loro a Barcellona, Berlino, Milano, Atene e Bruxelles emerge la quotidianità di un lavoro dominato da logiche del tutto simili a quelle di un videogioco con un sistema di incentivi. Più azioni fai, più livelli sblocchi per il gamer, più punti ottieni (in base a velocità, disponibilità, voto del cliente, etc.) più guadagni per il rider. 

La chiamano gamification, voi l’avete raccontata in questo film che, per l’appunto, avete chiamato “la vita è un gioco”. Che cosa significa gamification in questo settore?
LQ Utilizzando, da lavoratore, le piattaforme, avevo notato dei meccanismi tipici dei videogiochi: l’interfaccia grafica o delle strategie per creare tensione come i timer che indicano il tempo mancante per prendere una decisione. Certe operazioni sono anche rese più difficili: piuttosto che fornire la distanza chilometrica bisogna riuscire a capire, attraverso una mappa, se il posto è lontano o vicino, o se è conveniente o meno accettare la consegna rispetto alla cifra offerta. È interessante che queste caratteristiche siano state affinate nel tempo: lavorando oggi, queste dinamiche di gamification sono molto più evidenti rispetto a cinque anni fa. 

Dal punto di vista cinematografico, avete fatto una precisa scelta stilistica: giustapporre le interviste dei rider in carne e ossa a parti di animazione in cui la protagonista è una ciclofattorina immaginaria, Emma. Ci potete spiegare questa scelta?
LQ Attraverso l’utilizzo dell’animazione abbiamo voluto raccontare un mondo che, essendo basato sull’esperienza, è molto più immediato e facile da comprendere con l’esperienza stessa piuttosto che con le sole parole. Le parti di animazione non sono altro che una simulazione del lavoro di un rider per una piattaforma, Small Box, inesistente ma verosimile. 

LC L’animazione è stato un espediente per mettersi negli occhi di un ciclofattorino, raccontando cosa significhi ricevere un ordine, scegliere o meno un tragitto e affrontare le criticità che si possono incontrare durante il percorso: la pioggia, il traffico, la manifestazione, etc..

La locandina del film che è stato presentato in anteprima al Festival internazionale del documentario visioni dal mondo di Milano

Tornando un po’ all’inizio, come mai avete scelto di affrontare questo argomento? Perché la scelta di dedicare un film-documentario ai rider?
LC Personalmente ho iniziato a occuparmi di gig economy da un punto di vista giornalistico poco prima di incontrare Luca. Come funzionano le piattaforme? Perché sono diventate imperanti? Il mondo dei rider, ovviamente, mi è sembrato il primo ambito su cui porre l’attenzione per capire meglio cosa fosse questa economia delle piattaforme. 

LQ Avendo lavorato come rider in passato, ho sempre voluto dare voce a chi lavora in questo settore, oggetto di narrazioni parziali e incomplete. La mia è stata un’urgenza di vicinanza, facendo parlare persone con cui ho condiviso il lavoro in una parte della vita. 

La rider virtuale Emma, che nel documentario lavora per la fittizia piattaforma Small Box. A fine film si ribellerà alla tirannia dell’algoritmo

Una presenza fissa, seppur immateriale, è quella del cosiddetto algoritmo che decide a chi far fare le consegne e la remunerazione ottenuta. Quali implicazioni ha averci a che fare? Ha delle conseguenze anche sulla salute dei lavoratori?
LC Di base i lavoratori non sanno come funzioni l’algoritmo, non sanno le regole che gestiscono gli ordini o come vengano tracciati i percorsi. Si trovano in una posizione un po’ scomoda: non sapendo bene in base a cosa funzioni l’algoritmo, in molti si sono trovati, pur di andare più veloci, a dover cambiare abitudini attraversando la città, infrangendo, a volte, le regole della strada e assumendosi dei rischi reali.

LQ A ciò si aggiunge il fatto che, in alcune piattaforme siano assenti figure deputate al controllo del rispetto di alcune misure minime di sicurezza. Ciò permette al rider di non curarsene e di mettersi ancora più a rischio, pur di svolgere, il più rapidamente possibile, il suo lavoro. 

La giornalista Laura Carrer e il fotografo Luca Quagliato, i due registi del film documentario 

Nel documentario suggerite che i dati raccolti dai rider durante il loro lavoro servano per conoscere non solo le abitudini dei clienti ma anche per avere informazioni aggiuntive sul territorio. Ci potete spiegare in che senso e qual è lo scopo di questo meccanismo?
LC Il core business delle piattaforme è l’estrazione dei dati: dai rider, dai clienti, dai ristoranti. Non sappiamo esattamente che cosa ne facciano. C’è, però, un aspetto interessante, a cui si accenna nel documentario, da mettere in luce: l’utilizzo dei dati da parte delle piattaforme per fare concorrenza sleale ai ristoratori. Sapendo le abitudini alimentari di una certa zona, sono stati aperti ristoranti con solo il reparto cucina, ghost kitchen le chiamano nel documentario, che preparano una certa tipologia di piatti, i più richiesti nell’area, solo per la consegna a domicilio. A svantaggio dei ristoratori che non hanno le capacità di conoscere così bene le abitudini della potenziale clientela. 

A un certo punto la rider immaginaria, Emma, stanca dei soprusi e delle angherie che sta subendo, getta il casco a terra. Si possono immaginare anche delle soluzioni diverse per il futuro?
LQ Capita che, a un certo punto, da rider, la piattaforma ti “punisca” e inizi una fase discendente, dandoti meno consegne e facendoti guadagnare meno, in pratica. Quando i fattorini hanno problemi col cliente, e quindi con l’algoritmo, si lamentano ma difficilmente agiscono e si mettono insieme. Le cause possono essere varie: il momento storico, l’assenza di un’organizzazione, la poca efficacia dei sindacati nel settore o l’intrinseca condizione di isolamento del rider

LC Quello che abbiamo notato è la difficoltà dei sindacati a intercettare i lavoratori di questo settore. Un po’ più presenti sono i collettivi dal basso, anche se in generale è complesso riuscire a mettere insieme persone, soprattutto in questa fase, che non sanno neppure come in concreto stiano lavorando.

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