Diritti / Attualità
Gli occhi scomodi di Open Arms, l’inganno della Libia sicura e la “regia” italiana dei respingimenti
Già nel marzo 2018 era tempo di “lasciar fare ai libici”. Ma la Ong Open Arms si mise in mezzo. Due anni e mezzo più tardi, comandante e capo missione della Ong sono stati scagionati dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Perché quel “caso” è decisivo
Sigillare le frontiere marittime e delegare alla Libia, opportunamente equipaggiata, la gestione dei flussi. In sintesi: “esternalizzare”, grazie a una delega strutturata nel tempo. Nel libro “Alla deriva” ne avevamo raccontato un pezzo, risalente al marzo 2018, stagione sulla carta dei porti non ancora “chiusi” e di un’area SAR di competenza libica non ancora formalmente istituita. Quest’ultima verrà infatti definita a fine giugno 2018, con decisivo contributo italiano ed europeo e al dichiarato scopo di “ridurre gli eventi SAR direttamente gestiti dai Paesi europei”. “Se le autorità libiche dovessero dichiarare formalmente una zona SAR di loro competenza, l’Italia non sarà esentata dall’obbligo di rispettare i diritti dell’uomo”, ci disse all’epoca Francesca De Vittor, ricercatrice in diritto internazionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano.
Già nel marzo 2018 era tempo di “lasciar fare ai libici”. Ma la Ong Open Arms si mise in mezzo, andando incontro a un’inchiesta della magistratura siciliana. È una vicenda significativa che merita di essere raccontata, anche grazie alla ricostruzione precisa dei fatti realizzata dalla Capitaneria di porto italiana.
Sono le 4 del mattino del 15 marzo 2018. Un aereo della missione EunavForMed avvista nel Mediterraneo un gommone con dei migranti a bordo a circa 40 miglia a Nord Est di Tripoli. Si dirige a Nord, “in buono stato di galleggiabilità”. La centrale operativa del Comando in capo della Squadra Navale (CINCNAV) avvisa prima il centro di coordinamento dei soccorsi di Roma e poi il personale a bordo della nave Capri della Marina militare italiana di stanza a Tripoli (operazione “Nauras”). Deve “informare la guardia costiera libica”.
Il centro di coordinamento della Guardia costiera di Roma contatta la Ong Open Arms e la fa dirigere nella posizione del gommone; cinque minuti dopo invia un messaggio alla “Lybian Navy Coast Guard” chiedendone le “intenzioni”. Intanto la nave Alpino della Marina si prepara a inviare nella zona dell’evento SAR (ricerca e soccorso), etichettato come “164”, un elicottero per il pattugliamento. Solo un’ora dopo il primo messaggio, la nave italiana ormeggiata a Tripoli batte un colpo. Ci penseranno i libici – fa sapere il personale a bordo – perché sta per partire la motovedetta Gamines dal porto di Al Khums e a breve sarebbe stato “trasmesso il messaggio di assunzione della responsabilità SAR dell’evento”. I libici mollano tardi gli ormeggi, alle 6. Il centro di coordinamento di Roma avverte il personale della Capri che la motonave Open Arms è a 10 miglia dal gommone, già in attività di ricerca. “Il personale dell’Operazione Nauras – riporta la ricostruzione della Capitaneria – richiedeva di far allontanare l’unità Ong per evitare criticità durante il soccorso”.
Il nostro Paese sembra coordinare da Tripoli le operazioni dei libici: e la richiesta è quella di far allontanare la Ong. Roma però non è convinta e quindi chiede di “trascrivere” la richiesta anche nel messaggio di assunzione formale di responsabilità dell’evento. La guardia costiera libica lo aggiunge a mano: “Please tell Open Arms to stay out of sight of event 164”. Tradotto: gli spagnoli si tengano alla larga anche solo dalla “vista” dei migranti. Il tempo stimato di arrivo in zona delle motovedette Gamines e Sabratha (aggiunta nel frattempo) non è indicato. Alle 7, mentre Open Arms sta mettendo in mare i suoi gommoni ausiliari di salvataggio (rescue boat), la guardia costiera di Roma riferisce che da “quel momento non poteva più dare alcuna istruzione, atteso che le operazioni SAR erano sotto la responsabilità dello autorità libiche”. Nel frattempo, l’elicottero della nave Alpino avvista altri due gommoni, uno è carico di 100 persone. Al 164, quindi, si aggiungono gli eventi SAR 165 e 166. I libici comunicano di essersi presi la responsabilità del primo – invitando sempre Open Arms a starsene alla larga -, mentre sul secondo non riferiscono nulla. A quel punto Roma fa dirigere la Ong verso la posizione del terzo evento SAR. Ma i libici la bloccano di nuovo: anche il 166 è affare loro, nonostante prevedessero di arrivare sul posto tre ore più tardi. Open Arms non desiste e continua a cercare i gommoni. Se mai li avesse intercettati – fa sapere la Ong a Roma – “avrebbe provveduto ad effettuare una valutazione dello condizioni di stabilità delle unità e delle condizioni di salute dei migranti attraverso il team sanitario”. In quel momento entra in scena un personaggio chiave. Si tratta del capitano di vascello Patrizio Rapalino, l’addetto per la Difesa dell’Italia a Tripoli. Insieme all’ambasciatore Giuseppe Perrone, è tra i vertici di riferimento del nostro Paese in Libia. Come riportato dalla Capitaneria di porto, Rapalino, alle 9 di quella mattinata, “contattava Roma lamentando il comportamento della Open Arms, in quanto lo riteneva contrario al codice di condotta sottoscritto con il ministero dell’Interno italiano”. La Ong intanto trova uno dei gommoni (l’evento 166): sta imbarcando acqua e non ci sono unità libiche in zona. Inizia così a recuperare i migranti e si assume la responsabilità del soccorso. Nave Capri non la prende bene: “Questo – fa sapere a Roma – avrebbe potuto comportare possibili situazioni di pericolo/contrasto” con i libici. La Open Arms sta violando il codice di condotta ostacolando le attività delle autorità di Tripoli? No, secondo il capo della centrale operativa del MRCC di Roma, anche considerando che non si trova in acque territoriali della Libia. Alcuni dei migranti soccorsi dalla Ong finiscono in mare.
Sono le 10.15 del 15 marzo e un altro velivolo dell’operazione Sophia avvista due gommoni carichi ciascuno di almeno 100 persone. Open Arms carica a bordo 117 persone (di cui 8 donne, una incinta) e si dirige verso un altro gommone avvistato grazie all’aereo Moonbird della Ong Sea Watch. Secondo Open Arms, la Libia non può coordinare le operazioni di soccorso. Le autorità di Tripoli allora passano alle minacce. La motovedetta Ras Al Jaddar comunica via radio alla Ong di non intervenire, “minacciando anche l’impiego di armi”, come riporta la Capitaneria. Cercano di recuperare con la forza le donne e i bambini già caricati a bordo da Open Arms, che avvisa Roma di essere in “situazione di emergenza”. La motovedetta libica trattiene i gommoni di soccorso degli spagnoli. Vuole condurli verso le coste di Tripoli, minaccia di nuovo di aprire il fuoco. Sono quasi le 15.00 quando il centro di coordinamento dei soccorsi di Roma informa il CINCNAV chiedendo se fosse il caso di inviare “qualche assetto navale per garantire una cornice di sicurezza”. La risposta è no: “La Libia è uno Stato sovrano che stava intervenendo con un suo assetto governativo”. La Ong attiva allora il pulsante antipirateria. Tutti i migranti a bordo del secondo gommone scappano dalla motovedetta libica e raggiungono i mezzi di Open Arms: sono 7 minori, 25 donne e 69 uomini. Per un totale di 218 persone. Nessuno vuole essere “salvato” dai libici. Open Arms sbarcherà a Pozzallo il giorno successivo, dopo una lunga serie di trattative e dinieghi da parte dell’Italia. La Procura di Catania del dottor Carmelo Zuccaro dispone il sequestro preventivo dell’imbarcazione e contesta l’associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per l’equipaggio di Open Arms. Sappiamo poi come è andata a finire.
“In politica estera e in guerra ‘l’inganno’ fa parte del gioco. Soprattutto chi non ha la forza effettiva per conseguire i propri risultati deve sapere ingannare”. Proprio così scriveva nel gennaio 2015 l’addetto per la Difesa dell’Italia a Tripoli, Patrizio Rapalino, recensendo un libro. La “Libia sicura” è il nostro nuovo, grande, inganno.
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