Cultura e scienza / Attualità
Leila Guerriero. Le storie degli altri
La giornalista e scrittrice argentina è una delle principali esponenti della crónica latinoamericana, tendenza culturale che mescola la scrittura su eventi reali, l’analisi sociale e gli strumenti del romanzo. L’autore resta sullo sfondo
Leila Guerriero è talento e metodo. Al primo sguardo, questa donna magrissima con dita lunghe e sottili, un filo di mascara attorno agli occhi neri, un paio di anelli d’acciaio e un orologio, capelli ricci e vaporosi, non sembrerebbe contenere la forza di un toro. Forza creativa, esplosiva, disciplinata, con la quale sta trasformando il modo di fare giornalismo.
Si chiama crónica latinoamericana. È una delle tendenze culturali più fertili in lingua spagnola, intersezione tra giornalismo e letteratura, mescola la scrittura su eventi reali, l’analisi sociale e gli strumenti del romanzo. È paragonabile, per la sua diffusione, al boom degli autori latinoamericani degli anni Sessanta.
Attorno a questo fenomeno sono sorte riviste -come Gatopardo, Anfibia, Malpensante– libri, raccolte di testi, autori e scuole di scrittura. E insieme all’argentino Martín Caparrós e al messicano Juan Villoro, Guerriero è una delle esponenti del fenomeno letterario che racconta l’America Latina attuale e sta ridefinendo il giornalismo, non un surrogato per scrittori frustrati, ma una forma d’espressione degna della grande letteratura.
Se gli scrittori si specializzano in un genere, Guerriero è versatile come un robot da cucina: scrive colonne di venti righe per El Pais, interviste come ritratti analitici, reportage di trenta pagine e libri di cinquecento, come “Suicidi in capo al mondo”, “Una storia semplice” (gli unici due tradotti in italiano da Marcos y Marcos e Feltrinelli) e “Plano Americano”.
“La llamada. Un retrato” è l’ultimo libro di Leila Guerriero sulla storia dell’ ex attivista Silvia Labayru, pubblicato dall’ editore Anagrama, nel gennaio 2024 (432 pag., 20,9 euro)
La sua curiosità l’ha portata a trattare i temi più diversi: pianisti di successo, rapporto padri-figli, abitudini delle élite latinoamericane. Nel suo ultimo libro, “La llamada”, ricostruisce la storia di Silvia Labayru, una donna dell’alta borghesia argentina, ex attivista dei Montoneros, gruppo armato della sinistra peronista, che venne sequestrata dai servizi di sicurezza nel 1976, durante i primi mesi della dittatura militare.
Labayru, che allora aveva vent’anni ed era in cinta di cinque mesi, venne portata al centro di detenzione dell’Esma (la Scuola dei sottufficiali della Marina), nel centro di Buenos Aires, dove furono torturate e uccise migliaia di persone. Lì partorì, subì ogni tipo di tortura, fu costretta ai lavori forzati e obbligata a partecipare nell’infiltrazione dell’organizzazione delle Madri di Plaza de Mayo, in un’operazione che ha provocato la scomparsa di tre madri e di due suore francesi.
Labayru sopravvisse all’Esma, e insieme alla figlia andò a vivere in Spagna, dove si trovava una grande comunità di esuli argentini. Molti di loro la condannarono, la accusavano di tradimento per la scomparsa delle Madri. Detestata dai suoi ex compagni militanti e sostenuta da un gruppo di amici fedeli esiliati in Europa, si è ricreata una vita.
“È pericoloso chiedersi se sia il momento giusto per parlare di un certo argomento, perché significa che la discussione era latente”
Guerriero ha iniziato a intervistare Silvia Labayru nel 2021 mentre attendeva il verdetto del primo processo sulla violenza sessuale commessa contro donne rapite durante la dittatura, di cui Labayru era denunciante. Il risultato è il ritratto di una donna con una storia complessa, che “non si sente vittima”, spiega Guerriero.
Il libro è stato pubblicato all’inizio del 2024, proprio mentre in Argentina si insediava il governo di estrema destra di Javier Milei che punta a riscrivere la storia della dittatura militare, attenuando la responsabilità dei militari nelle violenze di Stato.
Il libro ha riacceso il dibattito sulle responsabilità dei gruppi armati di sinistra negli anni Settanta con l’avvento della dittatura militare e sulla rigidità ideologica degli esuli argentini in Europa. A chi chiede a Guerriero se era il momento di pubblicare un libro così, l’autrice risponde con fermezza: “È pericoloso chiedersi se sia il momento giusto per parlare di un certo argomento, perché significa che la discussione era latente. E comunque il libro io l’ho consegnato nel marzo 2023, quando nessuno pensava alla vittoria di Milei (avvenuta a novembre 2023, ndr)”, chiarisce.
Guerriero, come Truman Capote, non ha mai studiato giornalismo. Ventenne mandò un articolo al quotidiano argentino Página 12, lo pubblicarono in prima pagina e le proposero di entrare a far parte della redazione. “Ma io non sono una giornalista”, disse lei. “Lo sei, solo che non lo sai ancora”, le rispose l’allora direttore Lanata.
“Opus Gelber. Ritratto di un pianista” (Anagrama) è il libro in cui Guerriero ritrae con le parole la figura di Bruno Gelber, uno dei cento pianisti migliori del XX secolo. Ammalatosi di poliomelite all’età di sette anni, Gelber rimase paralizzato alla gamba sinistra. Ciò non gli impedì di brillare sui palcoscenici d’Europa, dove la critica lo definiva “un miracolo”
Da allora ha imparato il mestiere “nelle redazioni, con grandi editori” e imitando i grandi maestri. In questo percorso da autodidatta si innesta un talento fuori dal comune per la scrittura, uno sguardo affilato sulla realtà e una disciplina da monaco.
I suoi testi si costruiscono in un cantiere di ricerche e interviste, approfondite e sistematiche come scavi archeologici. Per scrivere il libro “Opus Gelber”, ha passato per un anno lunghi pomeriggi nel salone della casa del pianista Bruno Gelber, il protagonista. Registra tutte le sue interviste “quasi non prendo appunti. E col tempo ho sviluppato un livello di ascolto assoluto, un ascolto che mi sfianca”. La psicoanalisi, che pratica come moltissimi argentini, le è servita per affinare l’udito.
Nell’intervista “non faccio come quei giornalisti che con la domanda già facilitano la risposta. Faccio poche domande, chiare e nette, interrompo poco. Cerco di stare in un posto nel quale l’altro quasi non ti vede”, spiega.
Oltre all’udito, l’altro senso fondamentale per il suo lavoro è lo sguardo, uno sguardo che scava sotto la superficie delle cose. Ho un “radar sempre acceso, anche quando vedo una pubblicità in tv mi fisso sui dettagli, nel vedere cosa c’è oltre la superficie”, confessa.
I suoi testi possono essere incendiari, affilati, bui. Su chi legge possono lasciare un gusto amaro, fare ridere, convincere a essere intrepidi, evocare immagini.
Le metafore di Guerriero sono imprevedibili, grafiche ed effettive: un solista ha bisogno di carattere per “non soccombere al silenzio di una sala che trattiene il respiro come un mostro sommerso”, la poetessa uruguaiana Villarino “aveva un udito da puma”.
Le abbiamo chiesto come nascono le sue metafore. “È molto laborioso l’uso della metafora. Vanno dosate, nei testi lunghi usarne troppe può diventare stucchevole, in quelli brevi ne uso di più perché i testi sono più ardenti. Scrivere una metafora è come impazzire un po’. Devi essere molto connesso con quello che vuoi raccontare, devi chiederti come fai a trasmettere al lettore in una frase questa barbarità che stai vedendo. Se vuoi usare una metafora sulla miseria umana o la tristezza della domenica, devi conoscere molto bene l’intensità emozionale di quello che vuoi raccontare. Creare una metafora è un’alchimia tra dominio del tema, connessione emozionale, immaginazione”.
“Per essere giornalista bisogna essere invisibile, avere curiosità, impulsi, avere la fede del pescatore -e la sua pazienza- e l’ascetismo di chi si dimentica di sé stesso”
È nata nel 1967 a Junín all’epoca 60mila abitanti, a 270 chilometri da Buenos Aires. “Essere nata in un paese dell’interior dell’Argentina è una ricchezza rispetto a chi è nato nella capitale. Sono cresciuta in un paese con molti giochi di strada. Con mio padre ci chiudevamo in un cinema, vedevamo tre film di seguito, lui mi faceva sedere sulle sue gambe e mi raccontava quello che succedeva sullo schermo. Mi spiegava della sua gioventù avventurosa, è lui che mi ha trasmesso l’interesse per la natura. E per la lettura, leggeva a voce alta per me e mi raccontava storie”.
Da allora Guerriero non ha smesso di leggere, oggi le piace soprattutto la letteratura americana, del Nord e del Sud. Ma anche quella italiana, cita spesso Pavese. Alla richiesta di sapere che cos’altro legge tra gli italiani, risponde: “Non potrei vivere in una casa senza una copia della ‘Ballata del Mare Salato’ di Corto Maltese. Mi piacciono Agamben, Bifo Berardi, il libro del fisico Carlo Rovelli mi è servito molto per il mio ultimo, mi ha dato delle soluzioni”.
Guerriero sa che cos’è il precariato e la versatilità che richiede il giornalismo freelance. “È la storia della mia vita, da quando ho iniziato a lavorare. Ho sempre avuto dieci lavori in parallelo. Ho lavorato in varie riviste, ho fatto la stampa per la discoteca di un’amica, ma sempre riservandomi il tempo per scrivere”, racconta.
Per rispondere alla domanda “Che cosa vuol dire essere giornalista?” spiega che “per essere giornalista bisogna essere invisibile, avere curiosità, impulsi, avere la fede del pescatore -e la sua pazienza- e l’ascetismo di chi si dimentica di sé stesso -della propria fame, delle preoccupazioni- per mettersi al servizio della storia di un altro. Vivere in promiscuità con l’innocenza e il sospetto, in guerra con la commiserazione e la pietà. Essere preciso senza essere inflessibile e guardare come se si stesse apprendendo a vedere il mondo. Scrivere con la concentrazione di un monaco e l’umiltà di un apprendista. Attraversare un campo di correzioni infinite, cercare parole dove sembra che non ce ne siano. Giungere, giorni dopo, a un testo vivo, senza farciture, che dubiti, che dica quello che deve dire, che sia indimenticabile. Un testo che lasci in chi lo legge le tracce che lasciano la paura e l’amore, una malattia o una catastrofe. Azzardatevi: chiamatelo un lavoro minore. Azzardatevi”.
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