Cultura e scienza / Intervista
Le vulnerabilità dei lavoratori e dell’habitat lagunare, messe a nudo. “Il pianeta in mare”, di Andrea Segre
Il cuore meccanico della Laguna di Venezia da cento anni non smette di pulsare: Porto Marghera è il simbolo di un’economia globalizzata nella quale i lavoratori hanno sempre meno diritti e certezze sul loro futuro. Il regista Andrea Segre torna nel complesso industriale alle porte di Venezia per raccontare la precarietà delle loro vite. “Esistono almeno una decina di ‘pianeti in mare’ in crisi, a cui non sappiamo bene cosa succederà. Non c’è una politica industriale nazionale che provi a dare una risposta a questo disorientamento”, racconta ad Altreconomia
Nel pianeta industriale di Marghera lavorano operai di oltre 60 nazionalità diverse.
“Il cuore meccanico della Laguna di Venezia da cento anni non smette di pulsare: un mondo in bilico tra il suo ingombrante passato e il suo futuro incerto”, osserva il regista Andrea Segre parlando del suo ultimo film, “Il pianeta in mare”, da ieri nelle sale cinematografiche per ZaLab film.
Che cosa è rimasto del grande sogno italiano del progresso industriale? Prende avvio da questa domanda la ricerca del regista veneziano condotta tra le vite di operai, manager, camionisti e della cuoca dell’ultima trattoria del “pianeta Marghera”, perché ci sbagliamo quando “crediamo che in quegli spazi non ci sia più nulla, più nessuno”. Sono invece abitati da “storie che subiscono le scelte di poteri che non possiamo controllare in alcun modo”, come dice il regista.
“È la storia di un’economia globalizzata che ha reso i lavoratori -necessari a questo sistema- eterei e sempre più schiacciati verso il basso, mentre i padroni restano irraggiungibili. Questo potere smisurato lo troviamo nel ventre d’acciaio delle grandi navi in costruzione, nelle ombre dei bastioni abbandonati del Petrolchimico, negli alti forni e nelle ciminiere delle raffinerie, nel nuovo mondo telematico di Vega (il parco scientifico e tecnologico alle porte di Venezia, ndr) o nelle centinaia di container che navi intercontinentali scaricano senza sosta ai bordi dell’immobile Laguna. E i lavoratori non possono incidere in alcun modo su questo sistema”, spiega Andrea Segre.
D’altra parte, “è un sistema che funziona. I cantieri navali hanno commesse fino al 2028, non stanno rischiando la crisi -continua-. Ma in questo scenario emerge una mancanza di relazione tra i lavoratori: c’è un’atomizzazione dell’individuo, una solitudine, che non permette una trasformazione in corpo collettivo. Ciascuno si trova quel ‘pianeta’, ma non sa se gli appartiene e quasi se ne vergogna. Le risposte ai loro interrogativi sono continuamente rimandate. Nessuno sa se resterà, né per quanto”.
Lo dimostra il fatto che da quando il regista ha iniziato a lavorare al film, quattro dei protagonisti hanno cambiato vita: “Due operai della Fincantieri, uno senegalese e l’altro bengalese; un saldatore romeno e pure Viola, non gestisce più la trattoria, l’unico spazio materiale del film, un luogo di ritrovo di queste soggettività. Altri tre camionisti non passano più per Marghera… In questo ‘pianeta’ le vite cambiano spesso e velocemente”. Per questo i protagonisti continuano a chiedersi quale sarà il loro futuro: “Sono tutti pronti a spostarsi e muoversi, c’è una precarietà di fondo. È una condizione molto diversa da quella dell’operaio che un tempo aveva risolto la sua vita entrando in fabbrica, salute a parte”, osserva Segre.
A cambiare è stato anche il delicato rapporto tra l’uomo e il vulnerabile habitat lagunare. “Lo raccontano due pescatori lamentandosi del fatto che il fondale della Laguna si è riempito di ostriche dure, un’invasione che lo ha reso molto pericoloso nel camminarci sopra. I pescatori camminano in una terra di fango nero gravemente inquinata dalle attività industriali e -come gli altri protagonisti- sono rimasti soli. Un tempo c’erano molte più persone che facevano questo tipo di pesca, ma oggi i giovani non sono interessati a continuare: c’è stata una trasformazione antropologica, oltre che ambientale nel rapporto con la Laguna e i suoi mestieri”.
Il tema de “Il pianeta in mare” e l’uso dei fotogrammi dell’archivio storico Luce e dell’archivio audiovisivo del movimento operaio richiamano il film documentario di Daniele Vicari “Il mio paese”, del 2006. “Un film che ho amato molto e uno dei pochi negli ultimi 15 anni ad affrontare il tema dello sviluppo e della crisi industriale, mettendo a confronto sogni e ferite”, racconta Andrea Segre. Vicari usò in quel lavoro i materiali di un altro archivio, quello di Eni, “che raccontano la storia di un Paese povero che diventa libero grazie all’industria. È stata una trasformazione reale, ma che ha non ha considerato il grave impatto sull’ambiente naturale”.
Il film di Andrea Segre è in dialogo con quello di Daniele Vicari, che pure “ha una densità e una correttezza giornalistica maggiore del mio, che invece vuole andare in una direzione lirica, è un affresco che tiene aperti questi temi”.
Per il regista, “la trasformazione industriale è un tema ancora marginale sulla superficie mediatica di oggi. Ma esistono almeno una decina di ‘pianeti in mare’ in crisi, a cui non sappiamo bene cosa succederà. Non c’è una politica industriale nazionale che provi a dare una risposta a questo disorientamento, forse anche per questo il cinema lo racconta poco. Per esempio, Porto Marghera sarebbe uno scenario dall’enorme potenziale se qualcuno avesse il coraggio di investire sulla sua riconversione verde”.
Stasera “Il pianeta in mare” è a Milano, al cinema Beltrade, con la presenza del regista, Andrea Segre. Domani, 28/09, sempre al Beltrade, “Film Parlato e altri racconti. Incontro con Andrea Segre”, in collaborazione con FilmTv. Il calendario completo delle proiezioni si trova su zalab.org.
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