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Diritti / Opinioni

Le scuse non bastano, servono le dimissioni

Il capo della polizia Antonio Manganelli dice che è "il momento delle scuse" ma la polizia di stato in questi undici anni ha ingaggiato un inaccettabile scontro istituzionale con la magistratura, grazie all’avallo colpevole dei governi che si sono succeduti. Le condanne del 5 luglio sono state un sollievo per milioni di cittadini, ma per voltare pagina chi è stato a capo della polizia in questi anni (Manganelli e il suo predecessore De Gennaro) deve farsi da parte

Il capo della polizia Antonio Manganelli all’indomani della sentenza di Cassazione sul caso Diaz, ha detto che è arrivato il “momento delle scuse”, ma non ha chiarito bene di che cosa stia in realtà parlando. Si è probabilmente riferito a ciò che accadde alla Diaz, quindi le brutali violenze (ci tengo a ricordare che solo per caso nessuno è morto sotto i colpi dei micidiali manganelli tonfa, considerati tecnicamente “armi letali”) e gli incredibili falsi compiuti dalla polizia.

Ma c’è molto altro di cui chiedere scusa, alle vittime degli abusi e soprattutto all’intera cittadinanza. Penso al clima di omertà che ha circondato la magistratura e ai boicottaggi diretti dell’inchiesta attuati dal corpo di polizia. L’elenco dei gesti di arroganza verso i magistrati e il tribunale e quindi di tradimento dei doveri di lealtà istituzionale, è lungo e penoso:

– la consegna ai pm di elenchi incompleti degli agenti in servizio alla Diaz (addirittura non vi compaiono due dei condannati) e di fotografie spesso risalenti a molti anni prima dei fatti, quindi inutilizzabili per i riconosciementi;

– la mancata identificazione del quattordicesimo firmatario del verbale di arresto (tutto falso);

– la mancata identificazione dell’agente con i capelli a coda di cavallo, filmato mentre picchiava un cittadino inerme (si è poi scoperto che era in servizio alla questura di Genova e che seguiva le udienze dello stesso processo Diaz dalla zona riservata al pubblico, non si sa bene a che titolo);

– la sparizione delle due bombe molotov, prova chiave del procedimento, affidate in custodia alla questura e mai arrivate al processo; il rifiuto, da parte di 25 imputati su 27 (uniche eccezioni Michelangelo Fournier e  Vincenzo Canterini), di rispondere in tribunale alle domande dei pm.

Per tacere di quanto emerso con il processo per falsa testimonianza a carico dell’ex questore Francesco Colucci: le telefonate intercettate durante quell’inchiesta fanno capire quanto ampia e quanto pesante sia stata l’azione di alcuni imputati e altri funzionari per tentare di condizionare e sviare il processo.

C’è poi il capitolo delle promozioni accordate ai dirigenti di grado più alto a indagini e processi aperti e l’incredibile loro conferma a ruoli di altissima responsabilità nonostante le pesanti condanne inflitte in secondo grado, come se una sentenza della magistratura, seppure non definitiva, si potesse ignorare alla stregua di una semplice opinione avversa.

Si è così arrivati, per responsabilità dei capi della polizia che si sono succeduti dal 2001 a oggi (Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli) e con la complicità dei ministri degli Interni che si sono avvicendati, a caricare la Corte di Cassazione di una funzione impropria: non solo giudicare la correttezza formale del processo, ma anche decidere la decapitazione del vertice di polizia. Non sfugge a nessuno che la conferma dei condannati ai loro posti fino al 5 luglio 2012 è stata un’estrema forma di indebita pressione verso i giudici di Cassazione.

In questi undici anni la polizia di stato ha ingaggiato uno scontro istituzionale con la magistratura, agendo spesso con prepotenza e incurante delle stesse indicazioni di buon senso arrivate dalle istituzioni europee, che indicano con chiarezza qual è la strada da seguire in caso di rinvio a giudizio e di condanne di alti funzionari: sospensione immediata dagli incarichi al momento del rinvio a giudizio, rimozione dopo la condanna.

Per quest’insieme di ragioni il dottor Manganelli e il dottor De Gennaro sono oggi chiamati a un unico possibile gesto di responsabilità: le dimissioni dai rispettivi incarichi. Ne va della credibilità della polizia di stato, della fiducia dei cittadini verso le forze dell’ordine e le istituzioni democratiche. La sentenza del 5 luglio è stata vissuta con sollievo e con senso di giustizia da milioni di cittadini, ora è il momento di andare fino in fondo e di voltare pagina davvero.

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