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Ambiente / Intervista

Le responsabilità di Shell per il disastro nel Delta del Niger

La multinazionale petrolifera deve rispondere delle condotte della sua succursale nigeriana. A riconoscerlo, dopo cinque anni di battaglia legale, la Corte suprema di Londra. Intervista all’avvocato Matthew Renshaw che tutela due comunità colpite

Tratto da Altreconomia 236 — Aprile 2021
Nella pagina accanto l’area di Kegbara Dere, in Nigeria, pesantemente inquinata dal petrolio. Le foreste di mangrovie lungo le rive dei corsi d’acqua sono distrutte © Luka Tomac/Friends of the Earth International

Le comunità di Bille e Ogale in Nigeria potranno citare in giudizio nei tribunali inglesi la multinazionale petrolifera Shell per i danni causati dall’estrazione di petrolio nel Delta del fiume Niger. A stabilirlo, nel febbraio 2021, è stata la Corte suprema del Regno Unito con una sentenza che ha riconosciuto la competenza della giurisdizione britannica nell’individuare le responsabilità della società capogruppo, che ha sede a Londra, “madre” della succursale Shell Petroleum Development Company of Nigeria (SPDC). Giunta dopo una battaglia legale durata cinque anni, “la decisione è uno spartiacque e aumenta le possibilità di ottenere giustizia”, come racconta ad Altreconomia Matthew Renshaw, avvocato dello studio Leigh Day. Insieme a Ong e organizzazioni ambientaliste locali, il gruppo legale ha rappresentato le due comunità dove vivono oltre 40mila agricoltori e pescatori. “L’obiettivo è riuscire a ottenere un processo equo ed entrambe ritenevano di non avere grandi probabilità di successo nel loro Paese”, aggiunge.

La Nigeria è il primo produttore di petrolio del continente africano: nella “riserva” del Delta del Niger -dove opera anche Eni- Shell (attraverso la SPDC ma non solo) è attiva da oltre 60 anni. Conta tra le altre cose 50 pozzi per l’estrazione e più di seimila chilometri di oleodotti e gasdotti. Nel 2019 i ricavi totali derivanti dall’estrazione di petrolio e gas nel Paese sono stati pari a circa 4,5 miliardi di dollari (2.761 le persone impiegate) mentre le royalties versate (dichiarate dall’azienda) si sono attestate a quota 446 milioni di dollari. Il fatturato consolidato della multinazionale anglo-olandese nel 2020 è stato di oltre 180,5 miliardi di dollari. Come noto, le attività estrattive condotte dalle compagnie petrolifere hanno devastato il territorio dell’Ogoniland.

180,5 miliardi di dollari, il fatturato consolidato di Shell nel 2020

Lo documentava già nel 2011 un rapporto dell’Agenzia delle Nazioni Unite per la protezione ambientale (Unep) in cui si spiegava come l’estrazione di petrolio, la sua lavorazione e gli sversamenti avevano contaminato i terreni e i pozzi d’acqua potabile, anche con sostanze potenzialmente cancerogene come il benzene i cui livelli risultavano essere 900 volte superiori ai limiti stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità. Le foreste di mangrovie sono state distrutte e le comunità hanno denunciato di avere subito impatti sulla loro salute. Secondo il report “No clean no justice” -pubblicato nel 2019 dall’organizzazione Friends of the Earth, tra le realtà che hanno supportato le due comunità- i lavori di bonifica sono stati avviati solo sull’11% dei territori inquinati.

Avvocato Renshaw, la battaglia legale è durata oltre cinque anni. Qual è il suo inizio?
MR Nel Regno Unito il procedimento è iniziato alla fine del 2015. Le comunità di Bille e Ogale sostengono che le attività di Shell nel Delta del Niger abbiano avuto un enorme impatto sull’ambiente in termini di inquinamento e su loro stesse. Quando hanno deciso di citare la holding (la società capogruppo, ndr) in giudizio, l’azienda ha dichiarato che la causa non rientrava nella competenza dei tribunali inglesi e che il procedimento doveva svolgersi interamente in Nigeria, dove opera la SPDC. È la questione che abbiamo cercato di risolvere negli ultimi cinque anni. Ci è voluto molto tempo perché alcune comunità in Zambia avevano denunciato la multinazionale britannica Vedanta, attiva nel settore minerario, per l’inquinamento provocato dallo sfruttamento dei giacimenti di rame; il caso sollevava problematiche simili in relazione ai tribunali competenti e la Corte suprema ha voluto attendere l’esito di questa causa per prendere la propria decisione. È un peccato per le comunità che ci sia voluto così tanto tempo solo per arrivare alla sentenza della Corte: il processo contro Shell deve ancora iniziare.

A quali principi avete fatto riferimento per ottenere questo risultato?
MR Abbiamo fatto leva sul Regolamento dell’Unione europea 1215/2012 che all’articolo 4 stabilisce che l’attore ha sempre diritto a citare in giudizio il convenuto nel Paese in cui quest’ultimo ha sede. Dal momento che Shell è un’azienda anglo-olandese, ha sede nel Regno Unito e nei Paesi Bassi, le comunità hanno diritto a citare in giudizio Shell in un tribunale inglese. La questione che la Corte suprema doveva risolvere è se ci fossero le basi per poter citare la società madre in giudizio e ha dato un esito positivo. Nel caso della controllata in Nigeria, i ricorrenti vorrebbero fare in modo che venga anch’essa chiamata in causa dal momento che le ritengono responsabili entrambe.

In che modo avete collaborato con le comunità locali?
MR Sono stato molte volte in Nigeria, l’ultima nel 2016. Abbiamo incontrato la popolazione e i leader delle comunità che ci hanno parlato delle loro difficili condizioni di vita. Abbiamo collaborato con avvocati nigeriani e con organizzazioni locali come Environmental Rights Action, un’organizzazione non governativa impegnata nella lotta contro l’inquinamento da petrolio nel Delta del Niger. Oltre a Friends of the Earth, Amnesty International, Stakeholder Democracy Network e Center for Education and Human Resource Development. Oggi non abbiamo la possibilità di tornare in Nigeria di persona: faremo ampio affidamento sulle organizzazioni locali per continuare a lavorare, soprattutto quando il processo inizierà.

“I terreni non possono più essere coltivati e gli agricoltori non hanno modo di trovare altre terre. Quando tocchi l’acqua e il terreno, il petrolio ti resta sulle mani”

Che cosa ha potuto osservare in prima persona?
MR I membri della comunità Bille vivono su piccoli isolotti circondati dall’acqua per poter praticare la pesca. Il livello dell’acqua sale e scende continuamente durante il giorno e quando si alza si può vedere come il suolo cominci a inzupparsi di petrolio. Le foreste di mangrovie circostanti sono distrutte. Quando ho incontrato la comunità Ogale ho notato diversi cartelli, vicino ai pozzi e nei punti dove è possibile attingere acqua, in cui si indica che non è più potabile; purtroppo in molti non hanno le risorse per comprare acqua in bottiglia e sono costretti a bere quella inquinata. Anche i terreni non possono più essere coltivati e gli agricoltori non hanno modo di trovare altre terre coltivabili. Visitando questi luoghi si sente l’odore del petrolio nell’aria: quando tocchi l’acqua e il terreno, il petrolio ti resta sulle mani. Per quanto riguarda gli effetti sulla salute, entrambe le comunità sostengono che l’inquinamento abbia avuto un notevole impatto: hanno parlato di un aumento del numero degli aborti spontanei, delle malformazioni neonatali e dei decessi. Secondo uno studio realizzato dal Center for Economic Studies di Monaco, in Germania, nel 2012 in Nigeria 16mila bambini sarebbero deceduti entro il primo mese di vita a causa dell’inquinamento da petrolio.

Ora che cosa succederà?
MR Occorre prepararsi ad affrontare il processo raccogliendo le prove, per esempio valutando i documenti divulgati da Shell e coinvolgendo consulenti tecnici. Il dibattimento potrebbe iniziare tra 18 mesi ma è ancora difficile parlare con certezza dei tempi. Sicuramente cercheremo di coinvolgere le comunità. Si può fare in due modi: il giudice inglese andrà in Nigeria per parlare con loro e valutare la situazione in prima persona, oppure alcuni membri della comunità verranno a Londra per fornire la propria testimonianza. Anche nel caso in cui il processo non andasse a buon fine, il “semplice” fatto di poter parlare direttamente della propria situazione rappresenta per molte persone un traguardo e una grande opportunità. Non è ancora stata stabilita una cifra esatta sul risarcimento; la priorità è fare in modo che queste aree siano ripulite e che le comunità ricevano un supporto adeguato.

L’acqua nera inquinata dal petrolio a pochi passi dagli insediamenti della comunità nigeriana di Bille © www.flickr.com/photos/leighday

Come sono affrontati i costi?
MR Processi come questi sono molto costosi; i nostri assistiti non hanno le risorse per poter pagare gli avvocati e i consulenti tecnici, quindi siamo noi a fornire il denaro necessario. Se il processo viene vinto recuperiamo le risorse. In Inghilterra la parte che soccombe è tenuta a risarcire le spese legali. In caso contrario, i soldi non sono recuperati.

È ottimista riguardo all’esito del processo?
MR Certamente, anche perché la Corte suprema ha stabilito che le società capogruppo possono essere ritenute legalmente responsabili di eventuali danni provocati dalle loro controllate a livello locale. Le azioni legali come questa sono molto complesse e Shell ha sicuramente molte risorse a disposizione, ma riteniamo che le ragioni presentate dai nostri assistiti siano assolutamente solide e valide, avendo anche visto in prima persona i danni causati dalla multinazionale fossile. Le prove raccolte finora dalle comunità sono già molto efficaci: ad esempio nel 2011 le Nazioni Unite hanno svolto un’indagine che ha rivelato come i livelli di inquinamento dell’acqua siano 900 volte più alti rispetto ai limiti consentiti a causa della presenza di benzene e di altre sostanze tossiche. Siamo fiduciosi che tutte queste prove possano aiutare le comunità a ottenere giustizia e fare in modo che il territorio in cui vivono sia ripulito.

La sentenza può rappresentare un precedente significativo anche a livello internazionale?
MR Assolutamente sì. Ritengo che sarà più facile in futuro citare in giudizio le società “madre” come Shell per questioni legate al rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. La sentenza della Corte ha stabilito che se un’azienda dichiara pubblicamente di implementare misure per il controllo delle succursali, ma nel concreto non fa nulla per assicurarsi che operino in modo corretto, allora la holding può essere ritenuta legalmente responsabile. Sicuramente la sentenza avrà impatti nei Paesi di common law ma spero anche in altri. Nei Paesi Bassi è stata emessa una sentenza simile sempre nei confronti di Shell nel gennaio di quest’anno. Sono in corso cause simili in Canada, Francia e Nuova Zelanda e il nostro studio legale è in contatto con gli avvocati e le organizzazioni coinvolte. Penso anche all’Italia e al processo a carico di Eni ancora per fatti relativi alla Nigeria. Le seguiamo tutte con interesse. Si stanno facendo significativi passi in avanti per riconoscere le responsabilità penali delle capogruppo.

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