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Diritti / Approfondimento

Le persone straniere tagliate fuori dal supporto per l’inclusione lavorativa

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Coloro che hanno un permesso di soggiorno per motivi famigliari, lavoro o per attesa occupazione non potranno accedere al “Supporto per la formazione e il lavoro”, la misura di contrasto alla povertà introdotta nella legge di Bilancio 2023. Una scelta “illogica e irrazionale” denunciano oltre venti organizzazioni in un appello al governo

Oltre un milione di persone straniere resteranno escluse dal “nuovo” reddito di cittadinanza e, soprattutto, da tutte le misure di avviamento al lavoro previste dal nuovo strumento di sostegno alla povertà adottato dal Governo Meloni. Lo denunciano oltre venti organizzazioni, tra cui l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, Action Aid, Naga e molte altre, che sottolineano l’irrazionalità di questa esclusione. “Si tratta di persone che lo Stato ha autorizzato a fare ingresso in Italia -si legge nel testo dell’appello-proprio perché lavoratori o comunque titolari di un permesso che consente di lavorare e dunque è illogico che vengano escluse dai principali canali di accesso all’occupazione”.

Le persone escluse sono infatti proprio cittadini stranieri che hanno un regolare permesso di soggiorno per motivi famigliari, lavoro o in attesa di trovarlo che però non possono accedere al cosiddetto “Siils”, acronimo Servizio informativo per l’inclusione lavorativa e sociale, a cui possono iscriversi i residenti “occupabili” che non hanno più diritto al Reddito di cittadinanza. L’iscrizione a questa piattaforma, entrata in funzione dal primo settembre, è condizione necessaria per poter accedere al Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl), che prevede un sostegno economico vincolandolo alla partecipazione di un corso di formazione: l’importo minimo è di 350 euro per massimo dodici mesi. Restano esclusi, però, da questa misura coloro che hanno un’Isee pari a 6mila euro -“limite troppo basso”, secondo le associazioni firmatarie- e soprattutto con almeno cinque anni di residenza.

A questi requisiti, già stringenti, si aggiunge poi, come detto, l’esclusione di chi è titolare di determinati permessi di soggiorno. “Si tratta di candidati che anche qualora si trovino in condizione di povertà estrema resteranno esclusi non solo dal sussidio, ma anche da tutte le misure di avviamento al lavoro che il sistema intende offrire: dai corsi di formazione ai colloqui, passando alla facilitazione nelle assunzioni”.

Questa esclusione colpirà soprattutto le donne straniere perché il permesso per ragioni di famiglia è rilasciato soprattutto alle donne che si ricongiungono con il coniuge già residente in Italia. “Un paradosso -scrivono-. Dopo le parole spese anche nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) a favore di un aumento della partecipazione delle donne al lavoro, proprio loro siano escluse da un nuovo canale di inserimento lavorativo, limitandone le possibilità di autonomia e rafforzando i rischi di soggezione ed emarginazione”. I firmatari dell’appello al ministero del Lavoro hanno già annunciato che presenteranno un esposto alla Commissione europea per l’avvio di una procedura di infrazione a carico dell’Italia per la violazione del diritto alla “parità di trattamento” tra i titolari di un permesso di soggiorno con i cittadini già residenti nello Stato ospitante rispetto all’accesso alla formazione professionale e ai servizi di consulenza dei centri per l’impiego. Lo prevede la direttiva 98 del 2011 all’articolo 12 ma è “esattamente quello che la norma nazionale in vigore esclude”, scrivono le associazioni.

Nel febbraio 2023 la Commissione europea ha aperto due procedure di infrazione contro l’Italia: una in relazione al requisito di dieci anni di residenza per l’accesso al reddito di cittadinanza, l’altra per la richiesta di una residenza biennale posta per l’Assegno unico universale. “Le prestazioni sociali come il ‘reddito di cittadinanza’ -ha scritto la Commissione nella lettera con cui comunicava l’avvio della procedura con riferimento ai requisiti al Rdc- dovrebbero essere pienamente accessibili ai cittadini dell’Unione europea che sono lavoratori dipendenti, autonomi o che hanno perso il lavoro, indipendentemente dalla loro storia di residenza”. Sono due, nel frattempo, i ricorsi pendenti davanti alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia dell’Ue. Nell’attesa di un verdetto definitivo le discriminazioni nell’accesso alle misure di sostegno alla povertà, seppur su profili di illegittimità specifici differenti, sembrano ripetersi.

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