Ambiente / Attualità
Le “mani” delle lobby su Cop26 per fermare la transizione
Mentre a Glasgow si celebra l’Energy day, un nuovo report di InfluenceMap analizza il condizionamento negativo dei colossi industriali. “La transizione è difficile finché i governi non intraprenderanno azioni significative per affrontare l’ostruzionismo e la retorica anti-scienza da parte del settore dei combustibili fossili”
Le multinazionali fossili degli Stati Uniti, con le loro associazioni di categoria, sono impegnate a ostacolare le iniziative di contrasto alla crisi climatica. Il nuovo rapporto “Climate policy footprint 2021” curato da InfluenceMap, think tank indipendente, spiega il motivo per cui molti Paesi faticano a sostenere una politica ambiziosa sul clima. “Oggi è l’Energy day alla Cop26 e i leader dovranno concentrarsi su come accelerare la transizione dai combustibili -spiega il direttore Ed Collins-. Ma è chiaro che la transizione verso un futuro a energia pulita resterà difficile fino a che i governi non intraprenderanno azioni significative per affrontare l’ostruzionismo e la retorica anti-scienza da parte del settore dei combustibili fossili”.
Il nuovo report concentra l’attenzione sul cosiddetto Scope 4, che riguarda l’influenza che le aziende hanno sui decisori politici e che può avere un impatto “molto più significativo sui cambiamenti climatici rispetto alle emissioni fisiche dirette e indirette”. La classifica stilata si basa sulla valutazione della politica di advocacy delle aziende in materia di clima e l’intensità di questo impegno considerando anche il loro peso economico e politico. La compagnia petrolifera ExxonMobil con sede a Irving, in Texas, sale sul gradino più alto del podio, seguita dalla californiana Chevron. Nei primi 25 posti troviamo altre quattro aziende coinvolte nell’estrazione del petrolio: la ConocoPhilips (settima), la Pillips 66 (12esima) seguita dalla Valero Energy (13esima) e dalla Occidental Petroleum (22esima). La massiccia presenza di queste aziende nella parte alta della classifica riflette “l’intensa resistenza del settore agli sforzi dell’amministrazione Biden per far allontanare l’economia statunitense dai combustibili fossili” sottolineano i curatori del rapporto. Anche il comparto automotive è coinvolto. Al terzo posto troviamo Toyota, la casa automobilistica che più si oppone alla transizione energetica: un posizionamento che nasce dalle proteste contro le normative proposte a livello globale per eliminare gradualmente i motori a combustione interna a favore dei veicoli elettrici nel 2020/21. Seguono Bmw, al 18esimo posto, General Motors (20esima), Daimler (24esima) e Hyundai (25esima).
La società mineraria Glencore, con sede a Baar in Svizzera, è all’ottavo posto generale per una politica climatica prevalentemente associata alla difesa del carbone termico, utilizzato per produrre energia elettrica e calore con altissimi livelli di emissioni di CO2. I risultati dello studio evidenziano quindi uno spostamento dell’influenza dal carbone “con un notevole aumento delle lobby legate al gas da parte del settore aziendale”. Troviamo quindi società che esercitano attivamente pressioni a favore della “falsa soluzione” in Europa: l’inglese Bp è al nono posto, Omv al decimo e Gazprom, il principale sponsor della Uefa, al 17esimo. “Quello a cui stiamo assistendo non si limita agli sforzi per minare direttamente i regolamenti -continua Collins-. Coinvolge anche tecniche di cattura narrativa prolifiche e altamente sofisticate, che portano i governi su strade incredibilmente pericolose. Il mondo sta iniziando a comprendere l’impatto che queste aziende stanno avendo attraverso la loro influenza politica”.
Non solo le aziende. Il report analizza anche il ruolo anche delle associazioni industriali che spesso adottano un approccio “ancor più negativo sulla politica climatica” rispetto a molti dei loro “controllori” aziendali. Ancora una volta, i lobbisti statunitensi dominano l’elenco delle 25 associazioni più ostruttive a livello globale, con quattro dei primi cinque gruppi provenienti da quel Paese. Ai primi due posti si posizionano infatti l’American Petroleum Institute e l’American Fuel & Petrochemical Manufacturers. Il settore dell’energia fossile continua a ricoprire un ruolo di primaria importanza: in totale, 13 dei 25 gruppi che compongono l’elenco rappresentano direttamente gli interessi fossili. Le restanti sono soprattutto associazione industriali intersettoriali come la US Chamber of Commerce (terza), la BusinessEurope (quinta), la California Chamber of Commerce (ottava) e al nono posto la Federation of German Industries.
Le organizzazione europee rappresentano in gran parte i settori dell’industria pesante e dei trasporti sono anche fortemente rappresentate, con cinque gruppi che hanno base nell’Unione europea e altri due che rappresentano aziende tedesche. Infine, due associazioni del settore dell’aviazione, la International Air Transport Association (decima) e Airlines for Europe (24esima) entrano a far parte della lista per la loro opposizione strategica all’emergere di regolamenti regionali sul clima per il settore, in particolare in Europa. “Questi risultati evidenziano gli sforzi frenetici delle associazioni industriali di tutto il mondo per bloccare o indebolire una solida politica e normativa interna negli ultimi anni. È probabile che molti di questi gruppi siano coinvolti nei colloqui sul clima questa settimana, come negli anni precedenti, alla ricerca di ulteriori opportunità per influenzare il corso degli eventi” conclude Collins.
Il rapporto A-list, pubblicato sempre da InfluenceMap nell’ottobre 2021, analizzava le aziende che influenzavano positivamente la politica climatica. Grandi marchi come Unilever, Nestlé, IKEA e Tesla, nonché i fornitori di servizi sulle energie rinnovabili come Iberdrola, Enel, Ørsted ed Edison International. L’analisi sottolineava come, potenzialmente, l’interesse di altre aziende di primo piano verso la transizione rappresentava “una speranza crescente che il settore aziendale appoggiasse l’azione dei governi nell’obiettivo di ridurre il riscaldamento globale al di sotto dei 2° stabiliti dall’Accordo di Parigi”. Ma proprio la continua opposizione degli interessi aziendali e settoriali mette in crisi il già complesso accordo politico. “Le autorità di regolamentazione delle principali economie, tra cui Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, hanno faticato ad attuare pacchetti politici per supportare i loro impegni sul clima -concludono i ricercatori di InfluenceMap-. Altri Paesi, come l’Australia, dove è ben documentata la profonda influenza del settore dei combustibili fossili sulla politica climatica, svolgeranno un ruolo di blocco ai negoziati sul clima della Cop26”.
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