Diritti / Attualità
Tra sfruttamento e bassi salari, le lotte delle lavoratrici domestiche
Mancanza di tutela legale, orari di lavoro massacranti, abusi e una filiera di reclutamento opaca. Per l’ONU si tratta di una delle categorie professionali più vulnerabili, formata soprattutto da donne, migranti e bambini
L’11 ottobre 2017, la stampa birmana ha riportato la notizia della morte di una giovane concittadina, Ma Wyne Wyne Lal, caduta dal diciottesimo piano di un grattacielo di Singapore dove lavorava come domestica. Già nel maggio e giugno 2017 il Paese era stato scosso dalle notizie di altre due ragazze cadute dai piani alti dei palazzi dove lavoravano nel tentativo di sottrarsi a maltrattamenti dei propri datori di lavoro. La Birmania, secondo la Myanmar oversea employment agencies federation (Moeaf), avrebbe circa 40mila cittadine impiegate come housemaids a Singapore. La vicenda di Ma Wyne Wyne Lal, richiama quella ben più nota, della lavoratrice domestica di nazionalità etiope caduta lo scorso marzo da un palazzo in Kuwait. Il filmato, girato dallo stesso padrone di casa, che mostra la donna chiedergli invano aiuto per poi cadere nel vuoto, ha fatto il giro del mondo attraverso i social network e riaperto il dibattito sulle condizioni di impiego domestico. A livello globale, secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro (Ilo), sarebbero almeno 55,6 milioni le donne impiegate come domestiche. Una popolazione numerosa quasi quanto quella italiana e, stando alle stime di Ilo, in crescita sia nelle nazioni a basso sia ad alto reddito. L’assenza di contratti scritti che definiscano i termini di impiego e l’esclusione delle lavoratrici domestiche dalle leggi nazionali del lavoro, sono tra le ragioni per le quali Ilo le annoveri tra le categorie lavorative più vulnerabili.
80% la quota di bambini impiegati come domestici in Bangladesh che lavorano dalle 14 alle 18 ore al giorno
Ulteriore elemento di fragilità è rappresentato dal fatto che il lavoro domestico sia spesso svolto da minori. In Bangladesh ad esempio, il National child labour survey ha evidenziato come dei 3,45 milioni di bambini che lavorano, almeno mezzo milione svolga lavoro domestico e il 78% di questi siano bambine. Il “Forum bengalese per i diritti dei bambini” (Bsaf) ha riscontrato come un terzo di queste non abbia mai frequentato la scuola. Il 7,5% dei baby lavoratori domestici non percepisce alcuno stipendio ma lavora in cambio di cibo. Nel 63% dei casi, lo stipendio viene versati ai loro genitori. Almeno 1 su 5 ha subito molestie sessuali.
In modo analogo, nel suo studio condotto su 23 Paesi, Anti-slavery international ha riscontrato come in Costa Rica l’età media di accesso al lavoro domestico sia di 10 anni, seguita da Etiopia (11), India, Perù e Togo (12). Ciò accade nonostante le legislazioni di questi Paesi prevedano un’età minima per il lavoro che varia dai 14 ai 18 anni. La ricerca di un’occupazione come domestica è associata alle principali rotte percorse da migranti. Negli Emirati Arabi Uniti, il 27 settembre 2017, lo sheikh Khalifa bin Zayed Al Nahyan ha approvato la storica Domestic workers law che riconosce per la prima volta una base di diritti minimi: ferie retribuite e un giorno di riposo a settimana. La notizia, pur non arrivata in Italia, è tutt’altro che irrilevante se si considera che il Paese, come riporta Human Rights Watch (HRW), ha una popolazione di circa 146mila domestiche provenienti principalmente da Filippine, Indonesia, India, Bangladesh, Sri Lanka e Nepal. Nei suoi report annuali, Hrw ha più volte denunciato le condizioni disumane delle lavoratrici negli Emirati: stipendi non corrisposti, sequestro nelle abitazioni, fino a 21 ore di lavoro al giorno, assenza di ferie o giorni di recupero, abusi fisici e sessuali.
Aida Awel, capo consulente tecnico di Ilo in Etiopia, evidenzia come le principali mete delle donne in cerca di impiego da Corno d’Africa o Estremo Oriente, oltre agli Emirati, siano Arabia Saudita, Libano, Giordania. E, misura minore, Qatar e Kuwait. Lo Yemen, nonostante la guerra, è ancora un Paese di transito e di destinazione. Ulteriore rotta per le donne africane, è quella per il Sud Africa attraverso Tanzania, Malawi, Zimbabwe. Awel spiega ad Altreconomia che, dal 2011, almeno 480mila migranti hanno lasciato l’Etiopia alla ricerca di lavoro in Medio Oriente. “L’espulsione di massa di migliaia di migranti irregolari etiopi dall’Arabia Saudita, nel 2013-2014, ha permesso di ricostruire la struttura delle migrazioni verso questo Paese. Le donne rappresentano il 25-30% dei migranti economici. Oltre il 90% svolge lavoro come domestica -spiega Awel-. Le testimonianze delle returnees hanno fatto luce su condizioni di impiego domestico equivalenti a quelle di schiavitù”.
“Le difficoltà di comunicazione, le differenze culturali e persino il non saper usare un elettrodomestico sono ragioni per cui le donne subiscono violenza” (Aida Awel)
Per questo Ilo supporta le istituzioni etiopi nella preparazione delle domestiche migranti alle future sfide: tra le attività si menzionano un manuale in lingua locale con le principali informazioni relative al contesto di arrivo e corsi di formazione professionale e linguistica. “Le difficoltà di comunicazione, le differenze culturali e perfino il non saper utilizzare un elettrodomestico sono ragioni per cui le donne subiscono violenze”, spiega Aida Awel. Anche le life skills sono cruciali: “Saper gestire i propri risparmi, inviare in modo sicuro rimesse alle famiglie di origine, fare rete sul territorio, conoscere quello che dice la legge nel Paese di destinazione e sapere come contattare la propria ambasciata sono informazioni cruciali che possono anche salvare la vita”. Uno dei sistemi più diffusi per ottenere un permesso di lavoro nei Paesi arabi è quello della kafala ovvero la “sponsorizzazione” da parte del datore di lavoro. Questo meccanismo, tuttavia, lega le migranti in modo indissolubile al proprio sponsor e, secondo Human rights watch, le espone a situazioni di lavoro forzato e schiavitù. Tra i casi più ricorrenti denunciati dall’associazione si menziona il sequestro del passaporto da parte dei datori di lavoro, che priva le donne anche del diritto al ritorno.
Secondo Awel sono per lo più agenzie private a occuparsi del recruitment all’estero. Nel 2016 il governo etiope (secondo Paese dopo il Bangladesh per numero di domestiche emigrate in Libano) ha adottato la “Proclamation 923” per regolamentare il ruolo del settore privato nell’impiego all’estero e porre freno alle agenzie informali che, fuori dal controllo delle autorità, sfruttano i canali illeciti, la corruzione e fungono da intermediarie nei grandi circuiti del traffico di esseri umani. Un modo sempre più diffuso per trovare lavoro è quello delle trattative individuali, oggi facilitate dai social network. Agli inizi di settembre, la BBC ha annunciato di aver tracciato dozzine di gruppi Facebook utilizzati per entrare in contatto con aspiranti domestiche migranti. Un escamotage per aggirare le alte tariffe imposte dalle agenzie, questi sistemi di sponsorship “fai da te” sono rischiosi e pericolosamente in crescita. Il 16 giugno 2011, Ilo ha adottato la Convenzione 189 (C189) sulle lavoratrici e i lavoratori domestici. La Convenzione vincola gli Stati ratificanti ad assicurare condizioni di lavoro decenti, che proteggano la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori domestici e il rispetto dei loro diritti fondamentali, tra cui quello di associazione sindacale.
La Federazione internazionale dei sindacati delle lavoratrici domestiche (Idwf), costituitasi ufficialmente nel 2013, ha visto crescere i suoi soci rapidamente e oggi vi aderiscono oltre 500mila lavoratrici su sei regioni geografiche. Vicky Kanyoka, coordinatrice per l’Africa, spiega che “il lavoro di Idwf consiste principalmente nel sensibilizzare i governi, le comunità e i datori di lavoro che quella delle domestiche è una professione come le altre”. Chi assume una domestica deve impegnarsi a firmare un contratto scritto, garantire orari di lavoro ragionevoli e uno stipendio dignitoso. È questo il contenuto di campagne come My Fair Home, iniziativa globale di sensibilizzazione che chiama le famiglie a sottoscrivere una serie di “promesse” verso le proprie domestiche. Oggi Vicky viaggia da una parte all’altra dell’Africa per formare i rappresentanti sindacali e promuovere la C189 tra i governi, ancora tanti, che non l’hanno ratificata. “Solo le Mauritius, il Sud Africa e la Guinea hanno ratificato la Convenzione. Le resistenze si spiegano parzialmente con il fatto che questa professione è ancora largamente affidata al settore informale e l’applicazione della C189 un impegno difficile”. Anche in Europa, tuttavia, i risultati non sono entusiasmanti: solo sette Paesi hanno ratificato la Convenzione. Tra questi l’Italia detiene un record positivo: il quarto Paese al mondo e il primo in Europa ad avervi aderito.
Human Rights Watch ha più volte denunciato le condizioni disumane delle lavoratrici negli Emirati: stipendi non pagati, fino a 21 ore di lavoro, abusi fisici e sessuali
Secondo i dati dell’Osservatorio Inps sui lavoratori domestici, in Italia questa categoria professionale, che nel 2016 contava 866.647 lavoratori regolari, è coperta per il 75% da stranieri (di cui quasi la metà dall’Europa dell’Est) e per l’88% da donne. I dati Inps mostrano come il numero di impiegati in questo settore si sia accresciuto del 38% dal 2007 a oggi. Con un picco nel 2012 in corrispondenza della sanatoria riguardante i lavoratori extra-comunitari irregolari. Nonostante il numero di lavoratori domestici abbia registrato nel 2016 un calo del 3,1% rispetto al 2015, è evidente che anche in Italia la domanda per questo tipo di servizi resti alta. Inoltre, i dati Inps fotografano solo la porzione regolare del lavoro domestico. Il rapporto Istat dell’11 ottobre illustra come il 37,5% sull’economia sommersa sia attribuibile al lavoro irregolare e che “la componente imputabile al lavoro irregolare è rilevante nel settore dei Servizi alle persone (23,6%) dove c’è una forte incidenza del lavoro domestico”. Virtuosi quindi, ma non abbastanza.
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