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La laurea negata
Meno studenti, meno docenti e tasse più alte. Le politiche adottate dal 2010 a oggi -da tutti i governi che si sono succeduti- ci consegnano un’università più povera e più diseguale rispetto agli anni pre-crisi. Intervista a Gianfranco Viesti
Il sistema universitario italiano non gode di buona salute. Ma non si tratta solo di accertare lo storico ritardo nei confronti degli altri Paesi europei: “Dieci anni fa abbiamo imboccato a grande velocità la direzione sbagliata sul tema dell’istruzione superiore”. Ne è convinto Gianfranco Viesti, docente di economia presso l’Università degli Studi di Bari e autore del volume “La laurea negata: le politiche contro l’istruzione universitaria” (Editori Laterza). Un processo di riforma -iniziato nel 2010 con la riforma Gelmini- che solo in parte è stato discusso e deliberato dal Parlamento e che per una parte molto rilevante è stato invece definito “da ristretti gruppi di persone, anche in conflitto di interessi”, scrive Viesti nel volume. Un processo avviato dal Governo Berlusconi ma che, con i cambi di governo successivi, non ha subito cambiamenti di rotta.
Risparmio, introduzione del “merito” e criteri di valutazione “oggettivi” sono state le parole chiave di questo processo di riforma. Il cui risultato è un’università più “piccola”, con meno docenti, meno ricercatori e meno studenti, più povera (per effetto del taglio al Fondo di finanziamento ordinario), più diseguale e meno competitiva a livello internazionale.
Nel 2015, il finanziamento pubblico all’università è stato di poco meno di 7 miliardi di euro in Italia (- 20% rispetto agli anni pre-crisi) contro i 28,7 miliardi investiti dalla Germania, 23,7 dalla Francia e i 9,8 del Regno Unito. Per far fronte a questi tagli, le università hanno dovuto alzare le tasse, penalizzando gli studenti provenienti da fasce sociali più povere. In Italia sono calati gli studenti universitari: – 9% tra il 2008 e il 2014. Mentre nei Paesi europei sono aumentati del 7% nello stesso periodo. Tra il 2008 e il 2016 il numero di docenti è passato da 63mila e 49mila: il blocco del turnover ha permesso di risparmiare circa un miliardo di euro (al 2016) ma che ha portato a un ulteriore invecchiamento del corpo docente. Nel 2000 il 15 % degli ordinari aveva più di 65 anni, nel 2014 la percentuale era salita al 25%. È calato il numero di ammessi ai dottorati (- 12% tra il 2008 e il 2015, con punte del 28% in scienze psicologiche, pedagogiche, sociali e politiche).
Professor Viesti, quali sono stati i provvedimenti più dannosi per l’università italiana?
GV Ne individuo due, a pari merito tra loro: il taglio del turnover dei docenti e l’aumento delle tasse. Il primo è servito per tagliare la spesa pubblica, andando a colpire l’unico costo sacrificabile, riducendo però l’offerta formativa e rendendo più difficile l’accesso a ricercatori più giovani. Il secondo, invece, è un controsenso in un Paese che si colloca agli ultimi posti in Europa per numero di laureati e che dovrebbe fare di tutto per portare gli studenti nelle aule universitarie. Aumentando le tasse si sono scoraggiate le immatricolazioni. Entrambi questi provvedimenti sono classisti: ha potuto fare il ricercatore molto più facilmente chi proveniva da famiglie benestanti, perché ha potuto mantenersi con altre entrate; e lo stesso vale per gli studenti provenienti da famiglie più abbienti.
Come nasce questo libro?
GV Nel 2015-2016 ho coordinato una ricerca sull’università italiana con un gruppo di 19 docenti provenienti da diversi atenei, confluito nel saggio “Università in declino” (Donzelli editore). Il libro racconta con dovizia di numeri e dettagli la trasformazione dell’università italiana e ha avuto un buon riscontro nel mondo accademico, con oltre 40 presentazioni in tutta Italia. Successivamente è nata l’esigenza di distillare alcune informazioni anche per chi non è un addetto ai lavori nel mondo dell’università, per parlare di uno dei grandi temi che interessano il Paese.
Si sta diffondendo l’opinione, anche sui media, che laurearsi non sia più conveniente. Come valuta questa affermazione?
GV Sono messaggi molto pericolosi. Non c’è un briciolo di evidenza a sostegno di questa tesi. Al contrario, chi riesce a laurearsi ha maggiori possibilità di trovare lavoro, ha un migliore livello retributivo e maggiore continuità lavorativa. E questo avviene in Italia come nel resto del mondo.
L’università riesce ancora a svolgere il suo ruolo di ascensore sociale?
GV Sì, ma meno di quanto potrebbe fare. Resta ancora uno dei pochissimi strumenti in grado di offrire ai più giovani di migliorare la propria condizione economica rispetto a quella dei loro genitori. Ma alcuni fattori come la famiglia di provenienza, ad esempio, contano ancora molto: chi viene da famiglie meno abbienti più difficilmente si iscrive all’università e i tassi di abbandono sono più elevati.
Quali sono le conseguenze del mancato investimento nel sistema universitario?
GV Le conseguenze principali saranno a medio-lungo termine. Un’intera generazione di ricercatori è rimasta fuori dagli atenei e lo stesso è accaduto a una larga fetta di studenti che non hanno iniziato gli studi universitari. Inoltre, questa politica ha profondamente avvelenato il clima interno alle università: l’estrema carenza di risorse ha portato a un eccesso di competizione sia tra i singoli che tra le sedi di ateneo. Intendiamoci, la competizione è naturale: ciascuno di noi viene valutato per quello che scrive e che pubblica. Ma l’istruzione e la scienza in generale procedono anche per forme di collaborazione.
Lei critica duramente il sistema di valutazione che è stato adottato negli ultimi anni.
GV La valutazione è sacrosanta, ma a patto che serva per far migliorare un servizio pubblico. Gli studenti e tutti i cittadini hanno diritto di sapere se ci sono pecche nella didattica o se i corsi sono organizzati in maniera soddisfacente. Nulla di tutto questo viene fatto dal sistema di valutazione oggi in vigore per l’università italiana che viene fatto per ripartire i tagli di bilancio e non è legata a una valutazione di tipo scientifico, che noi tutti accettiamo. Ad esempio, la qualità della ricerca viene valutata in base alle citazioni. Questo scoraggia la curiosità dei ricercatori così come penalizza chi si occupa di ambiti di ricerca minoritari perché non si viene citati.
Nel libro lei rimarca la differenza che si è creata in questi anni tra le università di “serie A” e quelle di “serie B”.
GV L’interesse dell’Italia è avere una rete di tante buone università. Invece la politica adottata in questi anni ha portato all’erogazione di premialità economiche di cui hanno beneficiato alcuni atenei -nel loro complesso- e non altri. Penalizzando così intere comunità accademiche sulla base di criteri che sono cambiati anno dopo anno. E basterebbe questo elemento per gettare una luce fosca sulle politiche di questi ultimi anni.
Il risultato è stato quello di indebolire il sistema universitario del Centro-Sud. Proprio in quei territori dove, per motivi economici, civili e sociali, bisognerebbe investire maggiormente nell’istruzione superiore. Si è indebolita l’università laddove c’è invece maggiore bisogno dell’università.
Cosa fare per invertire la rotta?
GV Io sono molto preoccupato. Servirebbe un’inversione politica molto forte, ma non vedo condizioni favorevoli per attuarla. Anche perché la riforma dell’università non è un tema che porta benefici nell’immediato, ma nel lungo periodo, non è un argomento che “scalda i cuori” nel nostro Paese e dopo tutto il battage negativo che si è fatto in questi anni, l’immagine dell’università si è deteriorata. Questo cambiamento, invece, è quanto mai necessario: non puntare sull’istruzione superiore significa rassegnarsi a un relativo declino in un Paese, come l’Italia, in cui gli esiti economici dipendono ancora troppo dalle proprie origini e provenienze. Nascere in una certa zona d’Italia piuttosto che in un’altra, nascere in una famiglia ricca piuttosto che in una povera fa un’enorme differenza. E questo non va bene.
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