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Diritti

L’acquisto degli F-35 si può ancora fermare

Alla vigilia della discussione e votazione alla Camera, e mentre è in corso la mobilitazione di pressione lanciata da "Taglia le ali alle armi", è utile fare un punto della situazione del programma Joint Strike Fighter e dei suoi risvolti italiani. Nei mesi scorsi la Difesa ha continuato con la sua tabella di marcia, ma lo stop è possibile

Nel dibattito di un certo rilievo stimolato dalla ormai prossima discussione alla Camera della mozione “NO F35”, e rafforzato dall’appello di personalità a sostegno della campagna “Taglia le ali alle armi”, alcuni elementi di novità interessanti a riguardo degli F-35 sono stati posti all’attenzione dell’opinione pubblica. 

Per primo un recente articolo di Toni De Marchi sul suo blog de ilfattoquotidiano.it, da sempre molto attento alla questione e sulle spese militari in generale, ha confermato ancora una volta come l’acquisizione e la produzione di pezzi del aereo sviluppato con il programma Joint Strike Fighter sia complessa e lunga.
E che perciò tutto il pressappochismo e le scarse informazioni fornite dalla Difesa degli ultimi anni siano da considerarsi una vera e propria strategia per tenere gli elementi di fatto nascosti agli occhi dell’opinione pubblica e della stesse istituzioni politiche con responsabilità decisionali. Basti pensare che, ancora oggi, molti commentatori e anche alcuni esponenti dei partiti credono ancora all’esistenza di penali in caso di recesso dal programma. 

Il suo articolo, che evoca la possibilità di un acquisto già avvenuto per l’Italia di ulteriori quattro caccia sotto assoluto silenzio, risulta quindi essere un buon allarme per segnalare le modalità di acquisizione che sono proprie di questo programma. In realtà la documentazione e i contratti citati, che derivano direttamente da fonti ufficiali del Governo degli Stati Uniti, erano già conosciuti e sono stati anche richiamati in un’analisi di questo nostro blog. Si tratta però di contratti che non configurano l’acquisto completo di nuovi cacciabombardieri, ma solamente prevedono la messa in produzione di alcuni pezzi speciali che necessitano “di lunga produzione” e che quindi vanno ordinati in anticipo. Una dinamica già avvenuta anche per quanto riguarda i primi tre caccia italiani che sono stati già acquistati (lotto 6 di produzione) e per i quali l’assemblaggio inizierà a metà luglio nello stabilimento pronto a Cameri in provincia di Novara. 

È’ quindi vero che una parte dei prossimi quattro aerei previsti ha già avuto un primo finanziamento da parte del nostro Paese, per una porzione che di solito equivale al 15% o al 20% del costo complessivo dell’aereo. Ma proprio per il già ricordato meccanismo di questo programma, che prevede entro la fine di ogni anno un incontro tra i governi partner ed una raccolta degli “ordini” da parte degli Stati Uniti che li ritrasmettono all’azienda produttrice, impedisce di considerare questo acconto come acquisto definitivo. Solo nell’autunno 2013 -a meno di ulteriori ritardi- il nostro Governo comunicherà all’amministrazione Obama la decisione definitiva su questo lotto, e il Pentagono andrà a contrattare con Lockheed Martin il costo effettivo degli aerei che verranno poi posti in produzione nel 2014. Siamo quindi pienamente in tempo, sia con iniziative di campagna che con attività parlamentare, per fermare la continuazione del programma F-35 in generale e bloccare anche i quattro caccia appartenenti al settimo lotto.

Un’analisi dei contratti tra Pentagono e Lockheed Martin permetto però di evidenziare molti aspetti interessanti. Prima di tutto perché dimostra come i Paesi partner del programma siano ingabbiati in un sistema che vede sempre Washington come capofila e decisore finale, senza dare libertà di azione né per un acquisto e una contrattazione diretta né per una gestione dei ritorni industriali. Una situazione che sarebbe “anomala” in qualsiasi altro comparto economico, perché vede una decisione diretta del governo degli Stati Uniti in un’ottica non certo di mercato. Con trattative che, da parte italiana, sono condotte da strutture del Ministero della Difesa (che si trova a dover fare da “agente” per commesse industriali) e non dalle aziende a produzione militare, in questo caso AleniaAermacchi. Dall’altro l’interesse è presente perché i documenti, emessi tutti tra agosto 2011 ed ottobre 2012 con incluso il contratto per alcune lavorazioni relative al motore, dimostrano come i favoleggiati ritorni tecnologici ed industriali per il nostro paese siano solo un racconto per bambini. In tutta la fase di produzione di questi cosiddetti “long term items” nessun pezzo che vedrà la luce verrà lavorato da industrie italiane: saranno solo aziende degli Stati Uniti e, forse, della Gran Bretagna a ricevere soldi per questa parte di commesse.

Gli altri elementi di novità e di interesse sul programma F-35 rilanciati recentemente dai mediaderivano invece da un’audizione al Senato degli Stati Uniti, che periodicamente riunisce una delle proprie sotto-commissioni per analizzare l’evoluzione del programma. Una dinamica di controllo ferrea e accurata che bisognerà assolutamente importare anche nella gestione degli acquisti militari da parte dell’Italia.

A fare le pulci al programma Joint Strike Fighter come al solito il GAO che ha riassunto la situazione e messo in fila le problematiche di natura tecnica e finanziaria. Ma è il risvolto strategico e di orizzonte a rivelare la maggiore debolezza dell’F-35 che deve ancora “dimostrare completamente la capacità del design e di operatività per  rispondere ai requisiti di combattimento”. Ed è quindi in questo senso che Michael J. Sullivan (Director Acquisition and Sourcing Management del GAO) ha potuto affermare che “il processo che il Pentagono usa per le sue maggiori acquisizioni è talmente guasto che i tempi di completamento portano ad un risultato (il sistema d’arma) ormai obsoleto”. Bella situazione per un caccia decantato come il futuro dell’aviazione militare…

Eppure alcuni esponenti politici USA (in particolare il sottosegretario Kendall) si sono detti soddisfatti che il programma, apparentemente, sia tornato nel ritmo previsto e che siano stati raggiunti alcuni obiettivi. Ma anche qui con un trucco: ciò è stato possibile solo perché il Pentagono (e soprattutto i corpi di Forza Armata che dovrebbero usare i caccia F-35) ha accettato una riduzione qualitativa e quantitativa di tali obiettivi. Uno stratagemma già utilizzato in passato.


Ma i problemi sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso Kendall ha dovuto ammettere che alcune parti dei progetti e del software siano state rubate ed hackerate da paesi stranieri, il che riduce ancora di più la distanza tecnologica sui caccia di quinta generazione. Mandando all’aria il disegno di “superiorità aerea” che tanto ha avuto fortuna tra i promotori e sostenitori (anche italiani) del programma. Un motivo da sempre sbandierato per supportare la necessità di non perdere il treno F-35 ma che oggi si sta rivelando ancora più debole che in passato. Ed è sempre lo sviluppo del software ad essere sul banco degli imputati perché alcuni obiettivi sono stati raggiunti ma a detta degli stessi ufficiali gestori del programma “la maggior parte del lavoro è ancora da fare”. Secondo Christopher Bogdan (ufficiale dell’Air Force ora a capo del programma JSF) ciò potrebbe comportare uno slittamento ulteriore nelle versioni più sofisticate del caccia ad oltre il 2017. Va ricordato come il Pentagono abbia recentemente fissato nell’autunno del 2015 il momento del raggiungimento della situazione “ready to combat”. Una condizione che inizialmente era prevista nel 2010 (siamo quindi a cinque anni di ritardo) e che ha messo in allarme le Forze Armate statunitensi, forzate quindi a trovare soluzioni alternative. E che dovrebbe spaventare anche chi in Italia sbandiera la necessità di F-35 a copratura di altre dismissioni aeree. Sicuramente chi sta cercando di correre ai riparti è Lockheed Martin che di recente ha riassegnato circa 200 ingegneri e tecnici al lavoro di sviluppo del software proprio per tamponare una situazione delicata e problematica.

Tutte pecche e problematiche che comportano un’aumento di costi che da tempo ha iniziato a preoccupare esponenti del Congresso statunitense, pungolati dai contribuenti. E proprio nell’audizione di qualche giorno fa il senatore Democratico Dick Durbin ha chiesto al Pentagono di giustificare una decade di costi in espansione di cui non si vede un termine bollando il programma JSF come “esempio massimo di come non si sviluppa un aereo”. E sul capitolo costi recenti dati del Dipartimento della Difesa USA confermano le analisi dei disarmisti: secondo il Pentagono il costo di gestione dell’intera flotta a stelle e strisce supererà i 1000 miliardi di dollari in cinquanta anni. Una media di 400 milioni circa ad aereo, in linea con la stima della Campagna Taglia le ali alle armi che prevede un costo complessivo per la vita completa dei 90 aerei italiani di oltre 52 miliardi di euro.

 

 

 

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