Economia / Opinioni
La vittoria di Joe Biden e la strada per una tassazione globale delle imprese
Il neoeletto presidente si è impegnato ad aumentare le tasse sulle società e sull’1% della popolazione più ricca. “È tempo di introdurre un’aliquota minima effettiva sulle società pari almeno al 25%” e colpire così i paradisi fiscali. L’intervento del prof. José Antonio Ocampo, presidente della Commissione indipendente per la riforma internazionale della tassazione delle imprese
Le elezioni presidenziali americane del 2020 saranno probabilmente ricordate a lungo. Non solo perché ci sono voluti giorni per ottenere il risultato e perché per la prima volta una donna, Kamala Harris, è stata eletta vicepresidente. Ma anche perché, sfidando tutti coloro che sostenevano che questa promessa fosse il modo migliore per perdere, Joe Biden si è impegnato ad aumentare le tasse sulle società e sull’1% della popolazione più ricca. E ha vinto.
Speriamo che questa vittoria dimostri a molti americani che decenni di politiche fiscali che favoriscono i ricchi e i potenti hanno spinto la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza ai suoi livelli più alti dagli anni 60, quando ha cominciato ad essere calcolata negli Stati Uniti. Come hanno dimostrato gli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, i miliardari sono ora soggetti a un’aliquota fiscale effettiva inferiore a quella della classe operaia.
Questa non è una peculiarità americana. Negli ultimi decenni, i governi di tutto il mondo hanno organizzato i loro sistemi fiscali a beneficio dei più ricchi e delle multinazionali. Questi ultimi possono così dichiarare legalmente i loro profitti nei paradisi fiscali per sottovalutare quelli che ottengono in Paesi dove le tasse sono elevate, anche se è lì che concentrano le loro attività. Allo stesso modo, i miliardari approfittano della mancanza di trasparenza per nascondere i beni e i redditi non dichiarati all’estero, al di fuori della “portata” della legge.
Non c’è nulla di marginale in questi abusi fiscali; non è un male necessario che fa funzionare l’economia per tutti. Ogni anno, il mondo perde più di 362 miliardi di euro a causa di abusi fiscali internazionali, come rivela un recente studio, “The State of Tax Justice 2020“, pubblicato da Tax Justice Network, Public Services International e Global Tax Justice Alliance (e di cui Altreconomia ha scritto qui, ndr). Mentre la pandemia ha già ucciso più di 1,3 milioni di persone in tutto il mondo, il rapporto afferma che i paradisi fiscali assorbono il 9,2% del budget sanitario di tutti i Paesi del mondo, l’equivalente di 34 milioni di stipendi annuali di infermieri.
In Italia, questo deficit ammonta al 9% della spesa sanitaria -sufficiente a pagare 380.000 infermieri-. Uno scandalo, se si considera la mancanza di personale medico. La situazione è ancora più tragica nei Paesi a basso reddito, con perdite fiscali che corrispondono, in media, al 52,4% del loro budget sanitario.
Il Coronavirus ha ricordato a tutti i governi, anche a quelli conservatori, quanto siano essenziali i servizi pubblici. Devono investire di più nella sanità, nelle scuole e nelle infrastrutture, ma anche nel sostegno alle imprese, soprattutto a quelle più piccole. E poiché il conto dovrà essere pagato, dobbiamo urgentemente raggiungere coloro che beneficiano del sistema senza contribuirvi.
Uno dei primi passi dovrebbe essere l’introduzione di tasse progressive sui servizi digitali delle multinazionali. Ironia della sorte, i giganti digitali sono di fatto i grandi vincitori della crisi sanitaria, beneficiando del fatto che non hanno bisogno di interazione personale con i loro clienti. Inoltre, i governi dovrebbero applicare un’imposta sulle società più elevata alle aziende che si trovano in una situazione di monopolio od oligopolio, in particolare a quelle che beneficiano della crisi, come il settore farmaceutico.
Soprattutto, non dobbiamo soccombere alle sirene dei tagli fiscali per i quali le grandi imprese stanno già facendo campagna, sostenendo che sono indispensabili per la ripresa. Sappiamo già che, in tempi normali, non è la tassazione che spinge un’azienda a investire in un Paese, ma piuttosto la qualità delle infrastrutture e del lavoro, l’accesso al mercato o la stabilità politica. Quando, inoltre, i progetti di espansione sono limitati dall’incertezza e dalla sovracapacità delle imprese, non sono i tagli fiscali a stimolare gli investimenti privati.
Infine, è imperativo introdurre un’aliquota minima effettiva complessiva dell’imposta sulle società pari almeno al 25%, come auspicato dalla ICRICT, la Commissione indipendente per la riforma della tassazione internazionale delle imprese. Qualsiasi società multinazionale che realizza i suoi profitti in un paradiso fiscale sarebbe quindi tassata nel suo Paese “d’origine” a questa aliquota minima. Ciò ridurrebbe il suo interesse a trasferire i suoi profitti verso i paradisi fiscali.
La pressione nelle ultime settimane da Paesi come l’Irlanda per fissare questo tasso minimo globale al 12,5% ha perso ogni giustificazione. Incoraggerebbe infatti i Paesi con tasse più elevate ad impegnarsi in una corsa al ribasso, riducendo così le loro risorse. Mentre l’amministrazione Biden sostiene un aumento dell’imposta sulle società statunitensi al 28% e un’aliquota minima effettiva globale del 21%, spetta ora all’Unione europea fissare l’asticella. Poiché questi due mercati sono inevitabili, nessuna multinazionale potrà boicottarli per evitare questo livello di tassazione. Il tasso del 25% può quindi essere stabilito a livello globale, fornendo agli Stati risorse sufficienti per ricostruire società ed economie più prospere e resistenti, ma anche più eque.
José Antonio Ocampo è professore alla Columbia University e presidente della Commissione indipendente per la riforma internazionale della tassazione delle imprese (ICRICT).
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