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Diritti / Approfondimento

La violenza economica che silenziosamente colpisce ancora le donne

Il tabù della gestione finanziaria esiste ancora nelle relazioni sentimentali, e sono le donne a subire le conseguenze della “dipendenza”. Ma non è il riconoscimento giuridico che manca bensì quello sociale. Ancora oggi alcuni comportamenti di sopraffazione da parte degli uomini nella sfera finanziaria sono considerati normali

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Lucia non sa quanti soldi ci siano sul conto che condivide con il marito. Non è lei che lo amministra, non ne sarebbe in grado. Mara, invece, un conto non ce l’ha proprio. È il suo uomo che le passa dei contanti per le piccole spese settimanali, le sole che le competono. Del resto, lei non lavora e non conosce l’ammontare dello stipendio di lui. Antonia ha un impiego ma non può disporre come vuole dei suoi guadagni: ogni volta che compra qualcosa, deve mostrare al suo compagno lo scontrino. Quando ha bisogno di acquistare dei medicinali, ha paura che lui non glielo permetta.

Tutte queste situazioni hanno un denominatore comune: la violenza economica. Questo termine, ancora poco conosciuto, si riferisce ad atti di controllo e di monitoraggio del comportamento di una donna in termini di uso o distribuzione di denaro, con la costante minaccia di negare risorse economiche. Può avvenire anche attraverso l’esposizione a un debito oppure il divieto ad avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale, da amministrare secondo la propria volontà.

“Si fatica ancora a riconoscere e ad affrontare la violenza economica -afferma Manuela Ulivi, avvocata e consigliera nazionale di D.i.Re -Donne in rete contro la violenza, realtà che unisce diverse organizzazioni di donne in tutta la Penisola-. I soldi sono un tabù. Non se ne parla mai, soprattutto nelle relazioni sentimentali. Invece bisognerebbe farlo, avere una propria autonomia finanziaria è fondamentale».

A mancare è principalmente l’informazione, non il riconoscimento giuridico. “Di questo tipo di maltrattamenti non si parla solo nella Convenzione di Istanbul, ma anche in direttive europee precedenti -continua l’avvocata-. La violenza economica è entrata nell’ordinamento italiano già alla fine degli anni 90”. Ancora oggi, tuttavia, alcuni comportamenti di sopraffazione da parte degli uomini, nella sfera finanziaria, sono considerati normali. “Di solito arriviamo a capire che c’è anche questo tipo di violenza dopo molti incontri -dice Francesca Vecera, responsabile del centro antiviolenza di Foggia, Impegno donna-. Molte persone danno per scontato che la donna sia economicamente dipendente dall’uomo”.

Di questo ci si può accorgere anche osservando i dati sull’occupazione femminile: secondo quanto riportato dall’Istat, nel 2021 in Italia lavorava solo il 49,4% delle donne, mentre gli uomini che avevano un impiego erano il 17,7% in più. “Ci sono ancora mariti che dicono alle mogli che non avranno più bisogno di lavorare, perché ci saranno loro a pensare alla famiglia. Questo però riduce l’indipendenza e la possibilità di gestire autonomamente la propria vita -continua Vecera-. E non si deve pensare che queste dinamiche accadano solo nei ceti sociali più bassi: sono situazioni trasversali, che si attuano a ogni livello culturale ed economico”.

Anche quando lavora, la donna, sia da libera professionista sia da dipendente, ha un guadagno nettamente inferiore rispetto a un collega maschio, anche per lavori molto qualificati (secondo dati Istat, le prime hanno una retribuzione oraria media di 15,2 euro, mentre i secondi di 16,2, con un divario più alto tra i dirigenti e i laureati). “Bisogna superare la visione secondo la quale le lavoratrici possono avere uno stipendio minore -chiosa l’avvocata- perché c’è l’uomo che compensa”. Anche questo, infatti, è sintomo di una società in cui la sottomissione e il controllo finanziario all’interno della coppia sono quasi normalizzati.

La violenza economica può avere anche delle declinazioni più criminose, delle vere e proprie truffe: può capitare infatti che la donna diventi una prestanome per delle società che, effettivamente, non amministra e che si ritrovi, poi, anche ingenti debiti. Oppure succede che la moglie si addossi un mutuo o un prestito di un bene che viene intestato al marito. “Spesso le vittime si vergognano a parlare di quanto gli è successo, perché, come accade anche negli altri tipi di violenza, si colpevolizzano -commenta Ulivi-, pensano di aver fatto la figura delle stupide. Quando invece è proprio la fiducia all’interno della relazione amorosa che ti fa abbassare le difese e fare qualcosa che, magari, con una tua amica non faresti mai”.

I maltrattamenti, spesso, non terminano con la fine della relazione. “Abbiamo visto addirittura mariti che minacciano di farsi licenziare per non pagare gli alimenti -dice Vecera-, dicendo che se non hanno nulla non possono dare nulla. Anche in situazioni in cui ci sono figli”. Alcuni uomini, quando vedono avvicinarsi la separazione, svuotano addirittura i conti correnti. “Nell’ordinamento giuridico italiano al momento del matrimonio c’è la possibilità di scegliere la comunione o la separazione dei beni -spiega Ulivi-. Oggi la maggior parte delle coppie, circa il 70%, sceglie la seconda opzione. Lo si fa per una questione di praticità, ma c’è poca informazione dietro. Per esempio, non si sa che, se si opta per la comunione, quando si riceve una somma per un’eredità, un risarcimento del danno o una donazione non diventa di proprietà di entrambi; solo il patrimonio che si costruisce durante la durata dell’unione è di tutti e due i coniugi”.

La separazione dei beni può essere fonte di disparità: se la donna è costretta a lasciare il lavoro, non guadagna. E, al momento della fine del matrimonio, si ritrova senza nulla in mano. “Il mantenimento per le mogli è riconosciuto con una difficoltà enorme -continua l’avvocata-. Perché tendenzialmente i tribunali stabiliscono che non possa essere una rendita vitalizia: la persona con capacità di lavoro deve rendersi autonoma. Se però per 20 anni ti sei dedicata alla famiglia, a 40 o 50 anni rendersi autonoma può essere molto complesso”. A volte per le vittime di violenza serve una vera e propria rieducazione finanziaria, che permetta loro di acquistare un’indipendenza. Molti centri come Impegno donna di Foggia, offrono quindi dei corsi per confrontarsi sulle basi della gestione del denaro, dall’utilizzo di bancomat e dei conti correnti alle scelte di spesa quotidiane. Alcune persone hanno partecipato anche a un percorso di autoimprenditoria proprio per affacciarsi al mondo del lavoro.

La violenza economica è un fenomeno estremamente pervasivo, con tante forme diverse e, a volte, inimmaginabili. “Ho visto donne regalare la casa per liberarsi del soggetto che le maltrattava”, racconta Ulivi. Per questo motivo, c’è bisogno di aumentare l’informazione e la conoscenza su questi temi – anche tra i giovani e i giovanissimi – in modo da riconoscere i campanelli d’allarme e prendere le necessarie precauzioni. L’informazione, però, soprattutto quando si tratta del campo economico, bisogna darla anche ai professionisti del mondo della finanza.

Così stanno facendo le organizzazioni che fanno parte di D.i.Re: un progetto, per esempio, riguarda la formazione degli operatori delle banche, perché consiglino le soluzioni migliori per evitare che il conto, o il bancomat, sia gestito in maniera unilaterale dall’uomo. A Genova, invece, nel 2018 i centri antiviolenza hanno stretto un accordo, per la prima volta in Italia, con il Consiglio notarile dei distretti riuniti di Genova e di Chiavari, che prevede, tra le altre cose, consulenze gratuite per le vittime di violenza, svolto da notaie, in modo che la persona possa identificarsi e trovare un sostegno, ma anche, a volte e dove necessario, un inserimento lavorativo all’interno degli studi. “C’è bisogno di fare una vera battaglia culturale e ideale -conclude Ulivi-. La conoscenza e l’informazione sono le armi più potenti che abbiamo: se una donna sa quali sono i comportamenti a cui fare attenzione, si può allertare prima e ha più probabilità di uscire da una situazione di violenza”.

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