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La violenza contro le donne e le risorse che mancano
In Italia nel 2021 ci sono stati 109 femminicidi. I centri antiviolenza e le case rifugio ricevono risorse scarse e le operatrici sono spesso volontarie. Le associazioni denunciano la situazione e sottolineano la necessità di intervenire già nelle scuole perché “la violenza è un fenomeno strutturale che richiede interventi preventivi e culturali”
L’ultimo femminicidio è avvenuto a Reggio Emilia dove Juana Cecilia Loayza è stata assassinata dall’ex compagno. Nella Regione solo pochi giorni prima erano state altre quattro le donne uccise da mariti ed ex partner. Storie che si aggiungono a quelle delle 109 donne che nel 2021 hanno perso la vita per mano di un uomo. Nonostante i numeri, in Italia i centri antiviolenza e le case rifugio continuano a non essere sostenuti e finanziati a sufficienza in uno scenario complessivo definito “desolante” dalle associazioni del settore. Gli interventi non sono adeguati, subiscono le lungaggini della burocrazia e dei tribunali, spesso si inceppano. Gli impegni delle istituzioni sono disattesi.
Nel rapporto “Cronache di un’occasione mancata”, presentato lo scorso 23 novembre, Action Aid ha presentato il quadro della situazione nel Paese. L’indagine, condotta nel 2021, ha analizzato l’andamento delle risorse stanziate nel 2020 in relazione al sistema antiviolenza nazionale, così come è regolato dal decreto legge 93/2013. Emerge che il Dipartimento per le pari opportunità ha destinato a interventi di “protezione” il 75% delle risorse, il 14% è stato invece dedicato alla “prevenzione” mentre il 2% ad attività di “assistenza e promozione”. Nel momento in cui il rapporto è stato chiuso, il Piano nazionale antiviolenza non era ancora stato definito: presentato martedì 23 novembre al Consiglio dei ministri (in aula c’erano solo otto deputati), ha di fatto lasciato scoperto un intero anno essendo il precedente terminato nel 2020.
Al 15 ottobre 2021 le Regioni avevano liquidato il 74% dei fondi nazionali antiviolenza relativi alle annualità 2015/2016, il 71% per il 2017, il 67% per il 2018, il 56% per il 2019. Mentre è stato erogato unicamente il 2% per il 2020: una situazione aggravata in modo ulteriore dal fatto che nell’emergenza sanitaria non sono stati erogati fondi straordinari per rispondere alle difficoltà aumentate dalla pandemia. Solo l’1% del decreto legge “Cura Italia” (tre milioni di euro stanziati nel marzo 2020 ripartiti nel novembre dello stesso anno e trasferiti alle Regioni nel primo semestre del 2021) destinato alle case rifugio è stato distribuito. Inoltre il Piano nazionale di ripresa e resilienza non contiene interventi di prevenzione e contrasto alla violenza di genere.
“Il Dipartimento per le pari opportunità non ha ancora trasferito risorse significative per il 2021. Dal 2018 vengono stanziati circa 30 milioni di euro all’anno: sono dati alle Regioni che li gestiscono in autonomia, distribuendoli ai centri e alle case rifugio. Dal riparto nazionale ai destinatari, si possono aspettare anche sette mesi”, spiega ad Altreconomia Mariangela Zanni, consigliera nazionale di Donne in rete contro la violenza (D.i.Re) del Veneto. “Si può aggiungere a volte un ulteriore tassello, quando i fondi passano ai Comuni che poi provvedono alla distribuzione. Così i tempi si allungano”. Non ricevere finanziamenti in tempi certi mette a rischio le attività delle operatrici che spesso lavorano come volontarie. Una situazione che D.i.Re conosce direttamente. La rete fa accoglienza, offre consulenza legale, psicologica e percorsi di orientamento al lavoro insieme a consulenze genitoriali, gruppi di auto-aiuto e consulenza alle persone migranti. Nel 2020 ha accolto 20mila donne e solo il 32% delle operatrici è stato retribuito. “La nostra richiesta è che i fondi siano aumentati e arrivino direttamente ai centri”, sottolinea Zanni. Secondo il monitoraggio annuale di D.i.Re sulle donne che si rivolgono ai loro centri antiviolenza, il 54,7% ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni: la maggior parte è italiana e una su tre non ha reddito. L’autore della violenza nel 76,4% dei casi è italiano tra i 30 e i 59 anni. La metà ha un lavoro stabile e nel 60% dei casi si tratta di partner. Sono invece ex per il 22,1% delle volte.
“La violenza di genere continua nei percorsi giudiziari. Le donne subiscono procedure e approcci che non riconoscono gli abusi vissuti, anche insieme ai loro figli”, spiega Nadia Somma, consigliera nazionale D.i.Re. “Può partire dalle sentenze della magistratura o dal comportamento degli operatori sociali e delle forze dell’ordine. È la cosiddetta vittimizzazione secondaria”. Si verifica, per esempio, quando non si tengono in considerazione le documentazioni che provano le violenze che diventano “liti di famiglia”. Oppure quando si impongono, attraverso i servizi sociali, forme di mediazione familiare tuttavia vietate dalla Convenzione di Istanbul. Per monitorarla, D.i.Re ha istituito un osservatorio. Composto da 30 esperte con diversi profili professionali -avvocate, psicologhe, educatrici e operatrici-, ha l’obiettivo di rilevare l’impatto della vittimizzazione secondaria e strumenti per promuovere un cambiamento nell’approccio istituzionale e giudiziario.
“Il fulcro su cui investire è la cultura. Educare alle differenze, all’affettività e alla sessualità perché la violenza è un fenomeno strutturale che richiede interventi preventivi, sistemici e culturali”, dice Simone Ammerata, operatrice di Lucha y Siesta, storica casa rifugio di Roma che negli anni è diventata uno spazio aperto alla città, luogo di incontro e autodeterminazione. “Da anni interveniamo nelle scuole perché è da là che bisogna iniziare a lavorare, ad agire per rompere gli stereotipi, a formare”. Per la settimana del 25 novembre, giornata nazionale contro la violenza sulle donne, Lucha y Siesta ha organizzato appuntamenti giornalieri dedicati alla violenza di genere, a come superarla, a quali sono le pratiche positive da potere adottare. Si arriverà sabato 27 novembre alla manifestazione nazionale a Roma organizzata dal movimento Non una di meno.
“Stiamo tenendo incontri pubblici anche per raccontare la condizione in cui versano i centri antiviolenza romani. Un disastro. In città ce ne sono solo otto per un totale di 25 posti letto, 50 se si aggiungono anche i bambini”, prosegue. Secondo la Convenzione di Istanbul, dovrebbero invece essere 300. Così le liste per avere un primo colloquio si allungano. “Riceviamo pochi finanziamenti e in ritardo. Le operatrici non prendono per mesi lo stipendio ma continuano a mandare avanti le attività”, prosegue Ammerata. “C’è bisogno di più risorse. Ma abbiamo bisogno di spazi femministi, imprescindibili per immaginare e mettere in pratiche trasformazioni radicali”.
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