Diritti / Approfondimento
La scuola italiana e l’accoglienza dei bambini ucraini. Un sistema fragile messo alla prova
Sulla carta il nostro Paese ha tutti gli strumenti per accogliere i bambini e i ragazzi di origine straniera. Ma l’inclusione sui banchi di scuola viene ancora spesso affidata a soggetti esterni -cooperative e volontari- senza programmazione, mediatori culturali e insegnanti L2, pur formati. Il nostro viaggio
Circa 17mila minori ucraini in fuga dalla guerra -più o meno la metà di quelli giunti in Italia dalla fine di febbraio 2022 a oggi- hanno già preso posto sui banchi delle scuole italiane: da quelle dell’infanzia alle superiori. Arrivati con le famiglie o da soli, sono ospitati da nuclei italiani, da connazionali o in centri di accoglienza. L’emergenza Ucraina va a inserirsi in un contesto, quello del sistema scolastico italiano, che ha già molte fragilità rispetto all’accoglienza di minori stranieri.
Le scuole dovranno prepararsi a gestire flussi continui e non prevedibili, a trovare le risorse e le competenze necessarie per accogliere bambini e ragazzi che, nella stragrande maggioranza dei casi, non parlano italiano e vivono una condizione di potenziale vulnerabilità psicologica. Il ministero dell’Istruzione (Miur) con la nota del 4 marzo scorso ha tracciato le linee guida per l’accoglienza e ha stanziato un fondo extra di un milione di euro per mediatori culturali e corsi di alfabetizzazione. Ogni istituto registra gli arrivi nel Sistema informativo dell’istruzione e riceve 200 euro per alunno. Per gli insegnanti, il ministero ha creato una sezione dedicata del suo sito web con materiali didattici e informazioni sul sistema scolastico ucraino. Il ministro Patrizio Bianchi ha affermato che i minori profughi potranno beneficiare del “Piano estate” (ovvero le attività estive nelle scuole) e ha prospettato la necessità di altri finanziamenti.
Gestire gli arrivi e le iscrizioni però non è semplice. Alcuni Uffici scolastici regionali, come quello del Veneto, stanno lavorando in rete. “Abbiamo un database condiviso con prefetture e Comuni, incrociamo arrivi e disponibilità delle scuole -racconta ad Altreconomia la dirigente Carmela Palumbo-. Per le lezioni di italiano utilizziamo il personale dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (Cpia) mentre l’Università Ca’ Foscari di Venezia offre gratuitamente corsi online”. Un problema diffuso è la scarsità di mediatori culturali ucraini. Si lavora con volontari e si moltiplicano le iniziative a sostegno delle scuole (come il progetto Druzi di Save The Children che offre un aiuto individuale online).
L’emergenza Ucraina rappresenta un banco di prova per il sistema scolastico italiano, dove la multiculturalità è la norma ma c’è ancora molto da fare per costruire efficaci politiche di integrazione. In Italia, secondo gli ultimi dati del Miur, relativi all’anno scolastico 2019-20, gli alunni con cittadinanza non italiana sono 877mila (il 10,3% del totale) e sono cresciuti del 23,4% tra il 2010 e il 2020. Appartengono spesso a fasce socio-economiche basse: secondo l’Istat (dati 2020) il 29,3% delle famiglie straniere è infatti in povertà assoluta contro il 7,5% di quelle italiane. Concentrati soprattutto nel Nord, gli alunni di origine straniera rappresentano un insieme eterogeneo: basti pensare che sui banchi delle scuole italiane sono rappresentate circa 200 nazionalità, con Romania, Albania, Marocco e Cina come primi quattro Paesi. A prevalere sono le seconde generazioni: i nati in Italia sono il 65,4% mentre i neorarrivati (Nai) sono solo il 2,6%.
In teoria sul fronte dell’integrazione l’Italia è un Paese all’avanguardia: i minori nell’età dell’obbligo si devono infatti iscrivere in qualsiasi momento dell’anno, indipendentemente dalla condizione giuridica, ed entrano subito in classe (non esistono, come in altri Paesi, gruppi separati). Per gli alunni neoarrivati si segue un protocollo di accoglienza dove l’alfabetizzazione è prioritaria e vengono offerti piani didattici personalizzati. L’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale del Miur comprende docenti universitari, dirigenti scolastici, associazioni: a marzo 2022 ha prodotto gli Orientamenti interculturali, l’ultimo documento su accoglienza e integrazione degli alunni con background migratorio, dove si parla di peer education, contenuti interculturali nei programmi delle varie materie, valorizzazione del plurilinguismo e delle culture di origine. Nonostante le molte esperienze educative di intercultura, però, il tarlo del modello italiano è la mancanza di sistematicità. Le scuole partecipano a bandi annuali (come quelli per le aree a forte processo migratorio o per il contrasto alla povertà educativa) per finanziare i corsi di italiano per stranieri (L2), in orario scolastico o pomeridiano, e i progetti interculturali (iniziative destinate ovviamente non solo ad alunni Nai). Ma la gestione varia molto secondo i casi, con personale spesso carente e ore insufficienti.
A Roma ricorrere a soggetti esterni e al volontariato per i corsi di lingua sembra la regola per molte scuole. Amalia Ghisani è presidente dell’associazione PiùCulture, che lavora con otto istituti nel II Municipio. “Siamo tutti volontari, molti tirocinanti ed ex insegnanti -spiega-. Facciamo lezione due volte a settimana a piccoli gruppi di bambini di livello linguistico omogeneo, organizziamo doposcuola pomeridiani. In classe gli insegnanti fanno il possibile, adattano la didattica, ma da soli non ce la fanno”. A Bologna Luca Prono è il dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo 5, con sette scuole nel quartiere multiculturale Navile-Bolognina, dove stanno arrivando i primi profughi ucraini. “In due primarie abbiamo più del 60% dei bambini con background migratorio. Siamo una ‘scuola polo’: gli alunni neoarrivati vengono registrati qui e poi distribuiti”. L’Ic 5 è una fucina di attività, come racconta l’insegnante Linda Leoni: dalla piattaforma sperimentale “Akelius” per la didattica dell’italiano ai video musicali sul quartiere premiati dal Miur, dai corsi di arabo ai progetti di riqualificazione urbana. Sono organizzati eventi per le famiglie e due genitori stranieri sono nel consiglio d’istituto. C’è una vasta gamma di corsi di italiano (anche il pomeriggio e a settembre appena prima della riapertura), finanziati da bandi ministeriali e dal Comune. Una scuola che sa fare sistema, eppure, dice Prono “le risorse non sono mai abbastanza: i 40mila euro dell’ultimo bando sulla povertà educativa sono stati una boccata di ossigeno”.
Nel centro storico di Palermo, Lucia Sorce dirige l’Ic Rita Borsellino, che promuove progetti di riqualificazione del quartiere e di progettazione partecipata.“Abbiamo la prima richiesta per un bambino ucraino. Lo accoglieremo, come abbiamo fatto per i bambini afghani o senegalesi, l’integrazione si fa sul campo”. La preside tocca nervi scoperti: “Avremmo bisogno di mediatori culturali fissi e di insegnanti qualificati di L2. Lavoriamo con le associazioni, ma le ore sono poche e non c’è continuità”. Se l’apprendimento della lingua è il primo step per l’integrazione, il sistema dei bandi funziona male: si programma con difficoltà da un anno all’altro, il personale, esterno o interno (tra cui il cosiddetto “organico di potenziamento”, docenti impiegati per le attività più varie) spesso non è qualificato.
Una situazione paradossale: in Italia c’è un’alta formazione nella didattica dell’italiano per stranieri e migranti (certificazioni come il Ditals dell’Università per stranieri di Siena), con moltissimi insegnanti specializzati. C’è anche una classe di concorso, la A023, per cattedre di italiano L2 a scuola, ma i docenti lavorano poco e solo nei Cpia, i corsi pomeridiani per adulti. Avere insegnanti di italiano e mediatori culturali strutturati che lavorano per una rete di scuole o un territorio aiuterebbe, ma su questo non si è mai investito. “Un altro nodo è la formazione -continua Sorce- non si può chiedere alla scuola di reinventarsi sempre. Agli insegnanti serve una formazione strutturale e periodica per lavorare in contesti interculturali, vanno rivisti la figura professionale e il contratto di lavoro”. Le competenze interculturali, nei fatti, sono lasciate alla libera iniziativa e non sono parte della professionalità dei docenti, che spesso non sanno nulla delle culture di origine dei loro allievi.
Se l’integrazione è carente fin dai primi passi, non stupisce che gli alunni di origine straniera abbiano difficoltà a superare il gap iniziale e vivano percorsi scolastici più travagliati, con risultati generalmente peggiori. Lo dicono le ultime statistiche del Miur e della Fondazione Ismu, relative all’anno scolastico 2019-20. Nei primi due anni di scuola secondaria di primo grado viene bocciato il 6% degli studenti con background migratorio (tra gli italiani la percentuale è dell’1,6%). Il ritardo scolastico è pari al 29,9% (l’8,9% tra gli italiani), mentre i ragazzi che abbandonano la scuola sono il 35,4% (il 13,1% tra gli italiani). Anche le ricerche sulla didattica a distanza nella pandemia segnalano l’accentuarsi del divario tra stranieri e italiani. Mentre in Parlamento si discute lo “ius scholae” e tanti studenti nati in Italia non hanno la cittadinanza, la scuola italiana, più che favorire la mobilità sociale, tende a riprodurre e a cristallizzare le disuguaglianze.
Queste criticità sono al centro di alcune recenti ricerche di sociologia. Marco Romito, ricercatore all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e autore di “Una scuola di classe” (Guerini scientifica, 2016), ha analizzato il passaggio dalle medie alle superiori. Gli studenti provenienti da classi sociali più basse (tra cui gli stranieri) sono portati a scegliere, complici i docenti, percorsi tecnici e professionali: per Romito “i dispositivi di orientamento riproducono e rafforzano i processi di segregazione, anche etnica”. Per Camilla Borgna, docente presso l’Università di Torino e autrice di “Studiare da straniero. Immigrazione e diseguaglianze nei sistemi scolastici europei“ (il Mulino 2021), il “nostro sistema formativo resta distante dall’ideale di pari opportunità: il contesto familiare continua a incidere fortemente sulle possibilità di apprendimento e di realizzazione di studenti e studentesse, producendo divari che la scuola non è in grado di appianare”.
Si tratta di un fenomeno comune in Europa: “L’Italia non si colloca male, ha una forte tradizione di inclusione, ma il sistema scolastico ha criticità generali che si riflettono anche sugli stranieri -scrive Borgna-. Il processo di progressiva assimilazione porta a un cauto ottimismo: ovunque gli esiti scolastici delle seconde generazioni tendono a essere migliori”. Per la docente si dovrebbe lavorare su tre aspetti istituzionali cruciali per ridurre la disuguaglianza: l’età di ingresso nel sistema formativo (prima si entra, prima inizia il processo di integrazione), la segregazione scolastica (cioè evitare che si creino scuole o quartieri ghetto); la separazione dei percorsi o tracking (la possibilità di scelta dell’indirizzo di studi della secondaria con meno rigidità e in una fase successiva del percorso, come nel Regno Unito).
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