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Diritti / Attualità

La repressione delle proteste e delle voci a favore della Palestina in Germania

L'attivista Udi Raz © Mariam Abou Ghazi

Udi Raz è un attivista ebreo tedesco dell’associazione Jüdische Stimme, che da mesi manifesta per il cessate il fuoco a Gaza. Arrestato in occasione di una conferenza censurata, ha perso il lavoro nel museo ebraico di Berlino per aver parlato di “apartheid” riferendosi alle politiche israeliane in Cisgiordania. Un clima pesante, con cittadini ebrei accusati di antisemitismo. Lo abbiamo intervistato

Un giovane uomo viene trascinato per le braccia da due agenti della polizia tedesca. In testa indossa una kippah con i colori della bandiera palestinese. Il video, che è rapidamente circolato sui social, è stato registrato lo scorso venerdì 12 aprile a Berlino: mostra l’attivista ebreo Udi Raz mentre viene trasportato fuori dall’edificio in cui si sarebbe dovuto tenere il “Congresso sulla Palestina”. Alcuni momenti prima le autorità tedesche lo avevano interrotto: organizzato da varie associazioni tra cui Jüdische Stimme (un gruppo di attivisti ebrei per la pace in Medio Oriente) il “Congresso sulla Palestina” sarebbe dovuto durare tre giorni. Tra gli ospiti erano previsti l’ex ministro greco Yanis Varoufakis e il chirurgo britannico-palestinese Ghassan Abu Sitta. A entrambi era stato però negato l’ingresso in Germania.

“I poliziotti hanno fatto irruzione nella sala e sono saliti sul palco -racconta ad Altreconomia Udi Raz, che è cittadino di Israele ma da anni vive a Berlino ed è un membro di Jüdische Stimme-, io ero seduto nel pubblico quando un amico mi ha fatto notare che i poliziotti dal palco mi stavano indicando, ridendo della mia kippah. Quando ho affrontato il poliziotto, e ho detto che lo trovavo antisemita, mi hanno arrestato”. Continua Udi: “Sono stato trattenuto per due ore per aver dato dell’antisemita a un poliziotto, il che è piuttosto eloquente: la polizia aveva appena interrotto un evento organizzato da un’associazione ebraica, e poi, chi altri se non noi, in quanto ebrei, ha il diritto di definire che cosa sia l’antisemitismo e come affrontarlo quando lo subiamo?”.

“Questo fatto si inserisce nel quadro più ampio della repressione delle proteste e delle voci pro-Palestina in Germania”, spiega Udi. In effetti negli ultimi mesi, nel Paese, le voci di solidarietà con la Palestina sono state represse duramente: diverse manifestazioni sono state vietate, vari eventi culturali annullati e a molti accademici, intellettuali, e artisti è stato impedito di esprimersi pubblicamente, tanto che è nato un “Archivio del Silenzio” per testimoniare questa censura. Molte di queste cancellazioni hanno alla base accuse di antisemitismo legate a posizioni critiche nei confronti dello Stato di Israele e delle sue azioni militari nella Striscia di Gaza.

“La Germania ha adottato la definizione di antisemitismo introdotta nel 2016 dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (Ihra)”, spiega Udi. Una definizione che associa le critiche allo Stato di Israele con l’antisemitismo. Secondo Udi, la definizione della Ihra, dando centralità allo Stato di Israele, metterebbe in secondo piano la pluralità delle esperienze di vita degli ebrei: “A mio avviso, questa è una definizione antisemita dell’antisemitismo”, afferma l’attivista.

Il risultato di questa visione, che equipara le critiche a Israele con l’antisemitismo, è che a essere colpiti da accuse di antisemitismo e censura sono anche artisti e attivisti ebrei, come evidente dai recenti episodi di cancellazioni che hanno coinvolto, per esempio, la filosofa Nancy Fraser o la scrittrice Masha Gessen. Secondo la ricercatrice Emily Dische-Becker, quasi un terzo delle persone che hanno subito cancellazioni o censure in Germania sarebbero ebree. Anche l’associazione di cui fa parte Udi Raz, Jüdische Stimme, che negli ultimi mesi si è battuta per un cessate il fuoco a Gaza e perché il governo tedesco sospenda il sostegno economico e militare a Israele, ha subito accuse di “presunto antisemitismo” da parte delle autorità.

Lo stesso Udi aveva già subito gravi conseguenze per le sue posizioni politiche in difesa dei diritti dei palestinesi: a fine ottobre, era stato licenziato dal suo lavoro di guida turistica al museo ebraico di Berlino per aver usato il termine apartheid in riferimento al trattamento dei palestinesi in Cisgiordania.

“Non credo che la Germania si preoccupi degli ebrei in quanto tali -dice Udi- continuo a constatare che gli unici ebrei di cui la Germania si preoccupa sono quelli che sono disposti a riprodurre un discorso di razzismo antimusulmano. E questo è antisemitismo”.

Durante l’intervista in videochiamata, Udi indossa la stessa kippah con i colori della bandiera palestinese che indossava il giorno in cui è stato fermato dalla polizia. Sullo scaffale alle sue spalle si intravedono alcuni libri: “Decolonial judaism”, un titolo che salta all’occhio. Sorge spontanea qualche domanda sul suo percorso politico e di attivismo. “Sono cresciuto ad Haifa, una città in cui abitano palestinesi, ebrei, drusi, e molti altri gruppi che vivono nella stessa area geografica, ma sottoposti a realtà di vita diverse”. Questa disuguaglianza, racconta, “è diventata chiara ai miei occhi quando, da adolescente, ho realizzato di essere queer e ho iniziato a cercare uno spazio che fosse sicuro per me: è così che ho capito, fin da relativamente giovane, che cosa significa vivere in una società che non considera te e la tua esperienza di vita come qualcosa di legittimo, ma non solo, che ti marchia anche come una minaccia per la coesistenza sociale”.

“Ad Haifa c’era un progetto di spazio sicuro per i giovani Lgbtq+: è stato lì che, per la prima volta nella mia vita, ho incontrato palestinesi e ho sentito da loro come ci si sente a vivere in un ambiente progettato dagli ebrei, per gli ebrei, in quanto non ebrei. Da quel momento in poi, mi sono impegnato nell’attivismo politico: sono andato in Cisgiordania, ho protestato contro il muro che Israele stava costruendo, ho studiato l’arabo. Finché un giorno, nel 2009, un mio caro amico è stato ucciso. Una sera, una persona armata è entrata in uno spazio sicuro per giovani Lgbtq+ a Tel Aviv, e ha iniziato a sparare su di loro. L’aggressore non era palestinese, e a oggi non si sa ancora chi è stato. Quando a compiere un attacco è un palestinese, il governo è disposto a rastrellare un intero villaggio, un’intera città per trovare il colpevole, ma se a essere colpite sono persone queer, non importa a nessuno, il che la dice lunga su quali siano gli interessi del governo. Io ho sentito che al governo non interessava di me, e così ho deciso di trasferirmi a Berlino”.

“Purtroppo sono abbastanza sicuro che non resterò ancora a lungo a Berlino -conclude rammaricato-, la Germania è diventata un posto pericoloso per le persone che hanno il coraggio di battersi per la democrazia, per i diritti umani e per il diritto internazionale: è spaventoso vivere in una città dove il razzismo nei confronti delle persone musulmane è diventato l’ideologia ufficiale delle istituzioni statali”.

Nella comunità di attivisti e nelle azioni di solidarietà portate avanti in questi mesi, Udi continua però a trovare speranza: “Ci sono ancora forme in cui possiamo agire contro le atrocità a cui stiamo assistendo, commesse con la complicità dello Stato tedesco”. Insieme a centinaia di altre persone, Udi ha partecipato all’accampamento di protesta contro l’invio di armi a Israele da parte della Germania, che si era installato davanti al Bundestag l’8 aprile ed è stato sgomberato dalla polizia a fine mese, il 26. “Noi continueremo fino ad esaurire tutti i mezzi a nostra disposizione, per ottenere il minimo che ci spetta -conclude Udi-, ovvero la democrazia, i diritti umani, il diritto internazionale e, a lungo termine, la liberazione di tutti dai meccanismi di oppressione”.

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