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Diritti / Opinioni

La notte dei diritti umani

Nel 2015, come racconta Amnesty International, hanno toccato il loro “punto più basso”. Dall’Egitto a Guantanamo

Tratto da Altreconomia 181 — Aprile 2016

Il Rapporto annuale di Amnesty International svolge una funzione sociale e mediatica ben precisa: serve a scuotere le coscienze assopite e a portare nell’agenda politica, almeno per qualche giorno, lo stato reale (pessimo) dei diritti umani nel Pianeta. I volumi prodotti dalla Ong che nel 1977 fu insignita del Nobel per la Pace sono dunque testi tanto vitali per la conoscenza del mondo contemporaneo, quanto politicamente scomodi. La loro sorte, mediaticamente parlando, è sempre incerta. In certe congiunture, anche il rassicurante confronto fra occidente democratico e Paesi e regioni del mondo più autoritarie o addirittura dittatoriali non è più sufficiente a garantirne la divulgazione a mezzo stampa. È successo anche quest’anno. L’introduzione al nuovo Rapporto, firmata dal segretario generale Salil Shetty, è dirompente. I diritti umani nell’anno 2015, scrive Shetty, hanno toccato “il punto più basso, proprio nell’anno che celebrava il 70° anniversario della fondazione delle Nazioni Unite”. Esecuzioni capitali, tortura, repressione, esclusione delle minoranze culturali e di genere sono ancora pratiche diffuse e ben radicate; in aggiunta, e proprio in Europa, l’afflusso di profughi in fuga da guerre e persecuzioni ha portato alla “negazione dell’accesso alle procedure di asilo”. Salil Shetty si pone così una domanda decisiva e drammatica, che lui stesso definisce sgradevole: “L’intero sistema delle norme e delle istituzioni internazionali è in grado di far fronte alla sfida urgente di proteggere i diritti umani?”

Una traccia di risposta è nel silenzio mediatico e politico seguito a quest’affermazione. E nelle diaboliche coincidenze di cronaca. Negli stessi giorni della pubblicazione del Rapporto 2016 di Amnesty, o poco dopo, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per i diritti umani per il caso Abu Omar, l’imam rapito il 17 febbraio 2003 a Milano da dieci agenti della CIA e spedito in Egitto: un caso tipico di “delocalizzazione” della tortura. Una condanna, altra sinistra coincidenza, arrivata nel pieno del “caso Regeni”, il ricercatore torturato e ucciso nello stesso Egitto, stretto alleato dell’occidente e guidato da un generale -il tetro Abd Al Sisi- a suo tempo definito “grande statista” dal  nostro premier, che si è anche detto “proud”, orgoglioso, d’esserne amico. Negli stessi giorni da Washington il presidente Obama ha espresso il (tardivo) desiderio di chiudere il carcere-mostro di Guantanamo sull’isola di Cuba, antica e dimenticata promessa elettorale (da leggere a tale riguardo il libro “12 anni a Guantanamo” di Mohamedou Ould Slahi, edito da PIEMME nel 2015). Proposito magari sincero, ma certo inapplicato e inapplicabile, se pochi giorni dopo lo special rapporteur dell’Onu sulla tortura, Juan Mendez, ha rinunciato a visitare Guantanamo, come lui stesso chiede da anni all’amministrazione Usa, di fronte alle troppe limitazioni che tale visita avrebbe avuto: “Non posso accettare tanti vincoli, creerei un precedente pericoloso”, ha spiegato Mendez, un uomo che fu vittima di tortura negli anni del regime militare in Argentina. 

Infine, ulteriore, sgradevolissima coincidenza, l’Europa dei 28 si è trovata a trattare con la Turchia il “blocco dei profughi” a suon di miliardi, senza alcun riguardo per i sacri princìpi di protezione sanciti da Carte e Trattati e  incurante dei progetti turchi di costruire una sorta di striscia di Gaza abitata da milioni di profughi nel sud-est del Paese. 

Facciamoci la vera domanda: resta ancora qualcosa della dottrina dei diritti umani?

* Lorenzo Guadagnucci è un giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
 

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