Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Ambiente / Approfondimento

La grave minaccia delle specie aliene invasive. Il rapporto dell’Ipbes

Esemplari di granchi blu, una specie invasiva del Mare Mediterraneo. Di wpopp - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20497

Le specie aliene invasive sono tra le più gravi minacce globali alla natura, alla sicurezza alimentare, alla salute umana. Hanno un ruolo chiave nell’estinzione di piante e animali e costano ogni anno oltre 420 miliardi di dollari. Il rapporto della Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici

Il granchio blu, un crostaceo proveniente dalle coste dell’oceano Atlantico occidentale, ha iniziato a diffondersi nei mari italiani (in particolare lungo le coste del Veneto e dell’Emilia-Romagna) già agli inizi degli anni Duemila: ha trovato un habitat favorevole, anche grazie all’aumento delle temperature delle acque causato dai cambiamenti climatici, e ha iniziato a riprodursi e prosperare. Al punto da diventare una presenza fissa -e sgradita- che sta causando gravi danni sia agli ecosistemi marini sia all’economia locale, in particolare agli allevamenti di vongole e cozze che vengono sistematicamente “saccheggiati” da questo vorace predatore.

Si tratta probabilmente della specie aliena invasiva più nota in questo momento nel nostro Paese -anche per il grande spazio che ha trovato sui media nel corso dell’estate- ma non è certamente l’unica. A livello globale, infatti, sono circa 3.500 quelle censite nel “Rapporto di valutazione sulle specie aliene invasive e il loro controllo” pubblicato a settembre 2023 dalla Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (Ipbes) che lancia l’allarme sulla loro diffusione, definita uno dei più gravi pericoli per la biodiversità, gli ecosistemi oltre che per la sopravvivenza delle popolazioni e delle economie locali. Si tratta di un problema globale “sottovalutato, sottostimato e spesso misconosciuto -si legge nel report-. Una delle prime cinque minacce alla biodiversità alla pari dei cambiamenti nell’uso del suolo e del mare, dello sfruttamento diretto delle specie, della crisi climatica e dell’inquinamento”. 

Un fenomeno che causa anche gravi danni economici il cui costo, nel 2019, ha superato i 423 miliardi di dollari: il 92% è causato dai danni diretti mentre il restante 8% è legato ai costi di gestione legati alle misure di contrasto e controllo delle popolazioni.

Il lavoro dell’Ipbes, durato quattro anni e mezzo, ha coinvolto 86 esperti da 49 Paesi e si è basato su oltre 13mila riferimenti (compresi contributi molto significativi da parte delle popolazioni indigene e delle comunità locali) che lo rendono la valutazione più completa mai realizzata sull’argomento. La Piattaforma ha censito complessivamente oltre 37mila specie aliene: mammiferi, pesci, insetti, piante, alghe e funghi estranei all’ambiente in cui vengono a trovarsi in quanto introdotte direttamente o indirettamente dall’uomo. Non tutte però rappresentano un problema. Quelle classificate come invasive, in grado cioè di influire negativamente sugli ecosistemi e sulle popolazioni locali, sono infatti circa 3.500. La maggior parte delle segnalazioni si concentrano nelle Americhe (il 34% del totale), seguite da Europa e Asia centrale (31%), Asia Pacifico (25%) e Africa (7%). Tre quarti riguardano gli ecosistemi terrestri, principalmente boschi e foreste temperate e boreali.

© shutterstock

Circa 2.300 specie invasive sono state rilevate nei territori abitati da popoli indigeni e rappresentano un’ulteriore minaccia per la loro sopravvivenza: “Incidono negativamente sull’autonomia, sui diritti e sull’identità culturale dei popoli indigeni e delle comunità locali attraverso la perdita dei mezzi di sussistenza e delle conoscenze tradizionali, la riduzione della mobilità e dell’accesso alla terra e l’aumento del lavoro per la gestione delle specie esotiche invasive”, si legge nel report.

I ricercatori evidenziano inoltre come molti animali e molte piante “esotiche” siano stati introdotti intenzionalmente dall’uomo in habitat diversi da quelli originari “in silvicoltura, agricoltura, orticoltura, acquacoltura o come animali domestici, per i loro benefici apparenti, senza considerare o conoscere i loro impatti negativi”. Mentre altre sono state importate involontariamente, ad esempio come contaminanti di merci scambiate o clandestini nell’acqua di zavorra, come è successo in Italia proprio per il granchio blu oltre che per la zanzara tigre. 

Gli stessi fenomeni che hanno portato a un’iniziale diffusione di queste specie, come le variazioni demografiche, economiche e di uso del suolo e del mare, stanno accelerando e di conseguenza aggravando il problema. A complicare il tutto si aggiungono anche gli effetti del cambiamento climatico. “Può influenzare la diffusione delle specie invasive attraverso lo spostamento del loro areale: il clima è un fattore importante che determina la loro presenza nel paesaggio -ha spiegato Emily Fusco ricercatrice post-doc all’Università del Massachusetts Amherst-. Inoltre, quando le specie invasive si stabiliscono e si diffondono in una nuova area, spesso portano con sé i loro impatti. Quindi, per una pianta infestante come la gramigna, nota per aumentare il carico di combustibile fine e collegata all’aumento degli incendi negli Stati Uniti occidentali, ciò significa un potenziale aumento del rischio di incendi in nuovi habitat”.

Così come le comunità locali e le popolazioni indigene sono le più colpite dal fenomeno, allo stesso tempo sono quelle che hanno gli strumenti più adeguati ad affrontarlo. A partire dalla prevenzione, impedendo ad animali e vegetali esotici di entrare e di insediarsi in un habitat. In secondo luogo, vi sono i programmi di eradicazione, che hanno un tasso di successo elevato per ecosistemi chiusi e per specie a basso tasso di riproduzione. È inoltre possibile introdurre una specie non dannosa e in grado di limitare la crescita di quelle pericolose, tramite il cosiddetto controllo biologico. Secondo i ricercatori questa pratica ha avuto successo nel 60% dei casi. Infine, ripristinare gli ecosistemi danneggiati può favorire le popolazioni autoctone e aiutarle a riprendersi gli spazi perduti oltre ad aumentare la resilienza a future invasioni. 

Un fenomeno ancora sottovalutato dai governi di tutto il mondo: nonostante l’80% dei Paesi abbia un programma per il controllo delle invasioni biologiche, l’83% non ha una legislazione per combattere le specie invasive e appena il 55% investe nella loro gestione. Un problema che rientra tra i 23 target globali da raggiungere entro il 2030 stabiliti alla Cop15 sulla biodiversità del dicembre 2022 a Montreal.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati