Ambiente / Opinioni
La Giornata dell’acqua non serve a invocare la pioggia ma per ribaltare modello
La crisi idrica dovuta ai cambiamenti climatici è frutto del nostro modo di abitare la Terra e di guardare alle sue risorse come un avaro guarda al suo gruzzolo. È urgente invece una trasformazione radicale dell’uso dell’acqua e dei suoli. A partire da agricoltura e zootecnia, intensive e colabrodo. L’analisi di Paolo Pileri
La Giornata mondiale dell’acqua quest’anno ha un sapore più secco del solito per via della siccità che si protrae ormai da due anni. Prima domanda. La siccità ci aiuta a capire le nostre responsabilità oppure rischia di farci pensare che sia tutta colpa del cielo che non fa piovere?
Quest’ultima versione, possibile, sarebbe una iattura e non possiamo permettercela. Se non piove è a causa dei cambiamenti climatici che sono a loro volta causa del nostro modo di abitare la Terra e di guardare alle sue risorse come un avaro guarda al suo gruzzolo d’oro.
Pertanto, non ci resta che iniziare dal fare due sforzi. Il primo è di tenere insieme quel che da decenni nei nostri discorsi separiamo. Quindi l’acqua con il suolo, il suolo con le piante, le piante con l’aria, l’aria con il suolo. Insomma, tutto è un ecosistema ed è questa visione a dover dettare la linea politica. Danneggiare una parte significa finire per danneggiare le altre.
E il suolo è l’ecosistema più essenziale di tutti, come ricordato il 21 aprile scorso dal Parlamento europeo in una risoluzione ancora troppo ignorata (Risoluzione del Parlamento Europeo sulla protezione del suolo 2021/2548 Rsp, 21 aprile 2021). Quindi se manca l’acqua è anche perché trascuriamo i suoli che potrebbero trattenerla; è perché siamo pervicacemente fissati su agricolture intensive non più ammissibili; è perché consumiamo suolo alterando il ciclo delle acque con tutti i danni che ne seguono; è perché promuoviamo una dieta alimentare super-idroesigente e non lo diciamo a nessuno.
Il secondo sforzo è conseguente: capire come stanno le cose così da avviare cambiamenti radicali del nostro stile di vita e indurre le nostre economie a fare altrettanto.
Partiamo al solito dal consumo di suolo. Urbanizzare un prato significa rinunciare a far infiltrare un quantitativo di acqua di pioggia fino a quattro-cinque volte meno e questo aggrava gli effetti della siccità. Lo sappia l’urbanista, lo sappia il sindaco che approva un piano urbanistico con nuove e vecchie urbanizzazioni. Il 50% della pioggia si infiltra solo se incontra superfici a prato o a bosco. Se queste diminuiscono, specie in pianura, è un enorme guaio.
La metà dell’acqua che si infiltra scende giù in falda e un’altra metà rimane nei primi centimetri di suolo che dobbiamo pensare come una grande cisterna che accumula acqua preziosa per restituirla poco alla volta alle piante, anche quando non piove. Soprattutto quando non piove.
Il suolo è fatto di grotte minuscole che ospitano grotte ancor più minuscole con dentro grotte ancor più minuscole. Ognuna raccoglie preziosa umidità alle sue pareti che hanno una superficie pazzesca: 800 metri quadrati per un solo grammo di suolo sano. Tutta l’acqua che rimane in campo è acqua preziosa che non perdiamo. Se invece cementifichiamo, le poche acque di pioggia scorreranno via in breve tempo rischiando pure di fare danni se la pioggia sarà intensa e breve. Un suolo non urbanizzato può trattenere fino a 3,8 milioni di litri d’acqua ovvero 150 tir di bottiglie d’acqua. E tutto questo a gratis. Buone ragioni per parlare, proprio nella Giornata mondiale dell’acqua, di azzeramento, ora, del consumo di suolo.
Anche l’agricoltura, specie se intensiva e ostile alla biodiversità, ha una responsabilità non da ridere verso l’acqua essendone il più grande utilizzatore (40% nell’Unione europea) e dissipatore (inoltre la prende pulita e la restituisce sporca). Alcune lavorazioni agricole compattano i suoli come pure molti mezzi agricoli, sempre più pesanti. Questo aumenta l’impermeabilizzazione che riduce, di nuovo, la quota di acqua che ha modo di rimanere in campo per le colture. Se meno acqua vi rimane, più acqua dall’esterno dovremo avere: e questo è un problema e un costo. Non solo.
La crisi idrica deve spingerci a capire che non possiamo mantenere tutta quella quantità di agricoltura intensiva, mais-basata, fatta per alimentare una zootecnia che ha superato ogni limite di sostenibilità e per mantenere una produzione di energia da biomassa (ovvero raccolti di mais che vengono avviati alla produzione di combustibile che poi va in un motore per produrre energia, con tutte le perdite di efficienze tra i vari passaggi) che ha invaso le nostre pianure.
Nella Giornata dell’acqua non possiamo non dire che la zootecnica è un settore colabrodo per quanto riguarda l’uso dell’acqua e dell’energia. Per generare un’unità di energia di carne nel nostro piatto ne dobbiamo usare dieci nel ciclo produttivo. Per ogni bistecca di manzo da un chilogrammo occorrono oltre 15.000 litri, per una di maiale 6.000: si chiama impronta idrica. Solo il 2-4% arriva da processi di riciclo delle acque, mentre oltre il 90% arriva dalle acque di pioggia. Un uso enorme di acqua per produrre mais e mangimi sostenendo un prodotto idrovoro ed energivoro. Inoltre, il mais ha bisogno di acqua a luglio, quando ce n’è stata sempre poca e oggi ancor meno. Ha senso piangere la siccità tenendo acceso un consumo di carni da paura? Ha senso piangere la siccità con una Pianura padana il cui mais va per l’80% in bocca a carne da macello e a forni da biomassa?
La Giornata dell’acqua non serve per invocare la pioggia ma per capire che è urgente cambiare le nostre abitudini alimentari sbagliate o semplicemente non più compatibili con l’attualità climatica. La politica deve darsi da fare per avviare i necessari cambiamenti radicali, come recita la Strategia europea per la biodiversità (giusto per rinfrescare gli impegni presi dagli oltre 8.000 governi del territorio che abbiamo in Italia, tra Comuni e Regioni).
Chiudere gli occhi davanti a un modello economico idrovoro e a uno stile di vita inconsapevolmente idroesigente non ha senso. La politica non è un servizio a chiamata per il cemento e le peggiori agricolture ma è lì (o dovrebbe essere lì) per indirizzare quei settori verso una strada sostenibile e molto, molto diversa dall’attuale. È dura ma è necessario. Tra la nostra sete e quella della nostra economia, in Italia ci beviamo 6.400 litri a testa al giorno (tredicesimi al mondo, quarti in Europa dopo Portogallo, Spagna e Grecia), in Europa siamo primi per consumo d’acqua potabile con circa 430 litri per abitante giorno. Mi pare chiaro che vadano abbassati i consumi e soprattutto vada abbassata drasticamente l’impronta idrica incorporata nel settore agroalimentare e nelle nostre scelte alimentari. Va messa mano alle perdite di rete (oltre un terzo dell’acqua immessa). Vanno permeabilizzate le città, va fermato il consumo di suoli senza se e senza ma. Vanno raccolte le acque urbane evitando di sprecare quelle potabili per lavare le strade.
Ma dove stanno questi programmi? In quale piano? In quale programma politico? In quale Piano nazionale di ripresa e resilienza? Non ci fate vedere presidenti del Consiglio e leader che se la cavano con la borraccia. Se vogliamo parlare di acqua dobbiamo farlo con una visione politica nuova, che smette di separare sintomi da cause, che smette di vedere una parte dimenticando che tutto è legato a tutto ovvero che le politiche che abbiamo bisogno, le uniche possibili, sono quelle che pensano ecologicamente.
Giornate come quella dell’acqua devono essere giornate in cui non piangiamo il morto, ma ci diamo da fare per cambiare radicalmente il vivo. Diffidiamo di chi ci propina disgiunzioni logiche che separano l’acqua dal suolo e il suolo dalle piante: in quel modo non riusciremo a raggiungere gli obiettivi e a colmare i ritardi. Diffidiamo di chi vuole gestire l’acqua affidandola agli interessi privati. Diffidiamo di chi ci viene a dire che sarà l’autonomia differenziata a risolvere anche questo problema perché è falso ed è vero solo l’opposto.
Che fare allora? Oltre a fermare il consumo di suolo, presto e senza deroghe, le proposte non possono che essere quelle di mettere mano all’agricoltura preparando, insieme, un piano di rapida e necessaria transizione verso colture molto meno idroesigenti, verso un modo di trattare i campi che favorisca il mantenimento dell’acqua in campo (pratiche agricole, siepi di bordo, fasce boscate, etc.), verso una progressiva riduzione degli eccessi zootecnici, verso una rieducazione alimentare di noi cittadini, prevalentemente ignari dell’impronta idrica di quel che mangiamo. Occorre riorganizzare le contese d’uso tra settore energetico e agricoltura, il che vuol dire tornare alla regia pubblica, ecologicamente preparata, per il governo delle risorse naturali. E poi abbiamo bisogno di avviare iniziative di riciclo delle acque industriali e civili in misura più intensiva di quanto facciamo oggi.
Insomma, ricordarsi solo il 22 marzo dell’acqua e della sua scarsità senza ricordarsi ogni giorno dell’urgenza di cambiare il nostro sguardo sulle cose e le nostre abitudini non ci farà imboccare la strada giusta che invece noi possiamo imboccare inforcando gli occhiali dell’ecologia.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)
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