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Finanza / Opinioni

La finanza ha occupato ogni spazio: il caso dei derivati sul prezzo delle opere d’arte

© Gabriela Gomez - Unsplash

La finanziarizzazione spinta ha cancellato ogni prospettiva d’investimento medio-lunga. I profitti devono concretizzarsi in pochissimo tempo, persino in pochi minuti. Con episodi emblematici come quelli recenti sul mercato dell’arte. Mentre la Bce colpisce l’economia reale e non i veri speculatori. L’analisi di Alessandro Volpi

È sempre più complesso definire che cosa sia diventato il capitalismo contemporaneo, al di là degli elementi fondamentali che storicamente lo caratterizzano. Un dato però pare chiaro: la sua finanziarizzazione, la sua dipendenza dalla finanza, lo ha reso fortemente concentrato su orizzonti temporali molto brevi. I profitti, i dividendi, le plusvalenze devono concretizzarsi in pochissimi anni, in pochi mesi e persino in pochi minuti. In altre parole, il nuovo capitalismo non ha alcuna dimensione dei tempi lunghi e neppure del medio termine.

In questo modo, drammaticamente, riesce ad aggirare anche il cruciale nodo del disastro ambientale. Ridurre al minimo i tempi dei profitti rende il capitalismo insensibile ai temi ambientali; la finanziarizzazione, in tal senso, è una vera e propria strategia per un capitalismo che si consuma sul solo, stretto presente. Ed è dunque profondamente ingiusto e pericoloso.

Al tempo stesso, la finanza sta occupando ogni spazio possibile, non tralasciando alcun ambito. Stanno sviluppandosi sempre più gli strumenti finanziari che scommettono sul prezzo delle opere d’arte; non più solo fondi che comprano e vendono opere e neppure soltanto opzioni di acquisto a scadenza. Stanno moltiplicandosi i contratti derivati che, appunto, derivano il loro valore dal prezzo dell’opera d’arte su cui scommettono, naturalmente senza possederla. L’esito di un simile fenomeno è immaginabile; le scommesse determineranno il prezzo delle opere, molto spesso senza alcun legame con il loro valore artistico e con l’operato della critica. Se i grandi fondi decidono che un artista è un fenomeno, scommetteranno per farlo diventare tale e ci riusciranno. L’arte finanziarizzata serve solo a fare soldi, in realtà soprattutto ai fondi, che stravolgeranno, di nuovo, l’idea stessa di mercato dell’arte.

In un simile contesto, la Banca centrale europea (Bce) è sempre più responsabile della finanziarizzazione trionfante. L’istituto di Francoforte, infatti, sta aumentando i tassi per ridurre la liquidità e contenere l’inflazione. In realtà, la liquidità ridotta dalla Bce è credito bancario, quindi un canale di finanziamento dell’economia reale. Ridurlo non significa affatto abbattere la liquidità che alimenta la speculazione perché ormai gran parte della speculazione si alimenta attraverso quella che era definita shadow banking e che ora si chiama “intermediazione finanziaria non bancaria”.

In altre parole, i grandi fondi, a cominciare da quelli più speculativi, sanno fare bene a meno delle banche centrali mentre l’economia reale e i debiti pubblici sono strangolati dal rialzo dei tassi. In queste condizioni la finanza onnivora sembra destinata a vincere sempre. Sarebbe necessario invece domandarsi che cosa sta determinando l’inflazione. A partire dall’estate del 2021, si è sviluppata per effetto della speculazione sui prezzi finanziari dell’energia e delle materie prime: questa ondata ha alzato i costi di approvvigionamento delle imprese mettendo in ginocchio quelle più piccole e favorendo quelle più grandi, spesso di proprietà dei fondi speculativi, che hanno retto tale aumento dei costi e l’hanno riversato sui consumatori, facendo profitti stellari.

In altre parole, i fondi hanno scatenato l’inflazione, poi hanno affossato la concorrenza delle imprese meno finanziarizzate per effetto dei prezzi alti e, dulcis in fundo, hanno realizzato profitti stellari attraverso le imprese di cui sono soci, facendo pagare il conto ai consumatori. Intanto, come accennato, la Bce sta finendo di strozzare il sistema produttivo sano. Il capitalismo della nuova finanza non perde davvero tempo. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.

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