Economia / Opinioni
La crisi economica da Covid-19 non è una “parentesi”. È tempo di accorgersene
Il governo ha quantificato in circa sette miliardi di euro l’ammontare delle risorse necessarie il prossimo anno per la cassa integrazione e ‘incentivi’ alle assunzioni: un’ipotesi decisamente insufficiente dato il contesto e la tendenza in atto. “Perché nascondersi dietro una poco credibile valutazione della ripresa economica pari al 6% del Prodotto interno lordo?”. L’analisi di Alessandro Volpi
La pandemia, per la sua pervasività dilatata dal diluvio social e mediatico, sta producendo una frattura nei linguaggi. La scienza ha acquisito una centralità sociale che, in maniera paradossale, le ha fatto perdere nell’immaginario comune una parte della sua oggettività perché è entrata senza mediazioni nel dibattito quotidiano; la sua relativizzazione, invocata dagli stessi scienziati, si è trasformata in partecipazione senza precisi punti di riferimento allo show dello scontro televisivo. In questa prospettiva corre il pericolo di non essere più percepita come ricerca e neppure come divulgazione per essere qualificata come strumento di una visione faziosa, quasi l’argomentazione non scindibile da un processo di politicizzazione. Ciò si lega al fatto che è cambiato anche il linguaggio della politica dove si è affermata la distinzione tra scientisti e negazionisti, due appartenenze semplificate e trasfigurate ad una più generale visione complessiva che proprio la pandemia ha indotto a schematizzare in modo pericoloso. La prudenza, la cautela, da un lato, la disponibilità al rischio in nome della “ripresa” dall’altro sono state radicalizzate tanto da costruire due schieramenti più inconciliabili di altre distinzioni politiche creando nuove incomunicabilità.
La frattura ha finito però per generare, in parallelo, alcune altrettanto semplicistiche ricomposizioni a partire da quella relativa all’Europa che, data la sua necessità, non può più essere fonte di divisione. È chiaro a tutti che senza il debito comune europeo non ci saranno le risorse necessarie per affrontare la crisi; una convinzione sposata anche da molti euroscettici. In una simile difficile fase, il governo sta cercando di evitare un nuovo lockdown generalizzato che accentuerebbe ulteriormente la frattura in atto e frenerebbe qualsiasi ricomposizione. Si tratta di uno sforzo necessario; tuttavia alcuni numeri dovrebbero far pensare. Se si aumentasse ancora il numero dei tamponi giornalieri, come alcuni auspicano, portandoli a 200-300mila, avremmo probabilmente 20-25mila positivi al giorno. Secondo le norme vigenti, ciò comporta la quarantena fiduciaria anche di tutti i “contatti stretti”; quindi sempre procedendo per ipotesi e limitando molto la cerchia di contatti stretti (1 a 4, ma potrebbe essere 1 a 5 o 1 a 10), altri 3-3,5 milioni di persone isolate a casa, nella larga maggioranza dei casi senza sintomi e impossibilitate a svolgere il loro lavoro, peraltro con inevitabili effetti sulla possibilità di mantenere in vita tutta una serie di servizi, a partire dalla scuola.
Questi numeri non servono a negare l’utilità dei tamponi ma possono aiutare a mettere in luce due aspetti da non trascurare. Il primo è costituito dal fatto che sarà comunque molto complesso gestire l’isolamento di una quantità di soggetti così estesa perché serviranno “spazi” che ad oggi non esistono e non è pensabile che siano “garantiti” dai positivi stessi, spesso privi della possibilità di disporre di una stanza e un bagno autonomi per restare separati dal resto della famiglia. Non dimentichiamoci che già ora il 70% dei contagi avviene tra le mura domestiche. Il secondo aspetto è rappresentato dai risvolti economici: il lockdown sarebbe devastante ma quello che si configura per effetto, consequenziale, della moltiplicazione dei tamponi sarà uno scenario assai duro per la tenuta della capacità di produrre reddito e dunque del sistema Paese. Di nuovo, dunque, servirebbe uno sforzo di chiarezza.
L’attesa salvifica del Recovery Fund non dovrebbe far dimenticare i numeri e i tempi reali. Secondo la nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza del governo, nel 2021 le risorse europee messe a bilancio ammonteranno a 25 miliardi di euro di cui 11 costituiti da prestiti, quindi da nuovo debito. Le risorse che, invece, lo Stato italiano dovrà prendere a prestito mediante l’emissione di titoli pubblici ammonteranno a 495 miliardi di cui 372 miliardi in titoli in scadenza da rinnovare e ben 123 di nuovo deficit. In altre parole l’Europa dalla quale dipendiamo, almeno nella fase più acuta della crisi, non è quella del Recovery Fund, su cui peraltro continuano i litigi, ma quella della Bce che già nel 2020 ha consentito di provvedere, senza traumi, nonostante il disastro economico dell’epidemia, al fabbisogno di 494 miliardi di euro; in pratica quasi 1.000 euro in due anni messi in circolo senza grandi discussioni.
Si tratta forse di quello che persino il governatore della Banca d’Italia, il di solito cautissimo Ignazio Visco, definisce “un new normal”? Sempre per chiarezza, sarebbe utile evitare due ulteriori finzioni pericolose. La prima è quella di fornire stime troppo caute della spesa sociale, e in particolare di quella destinata agli ammortizzatori. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha quantificato in circa sette miliardi di euro l’ammontare delle risorse necessarie il prossimo anno per la cassa integrazione e “incentivi” alle assunzioni: è evidente che ipotizzare una simile cifra mentre si torna a chiudere parti di attività economiche appare decisamente insufficiente. È possibile che serva una spesa pubblica, in quell’ambito, tre-quattro volte più alta. Perché, allora, nascondersi dietro una poco credibile valutazione della ripresa economica pari al 6% del Prodotto interno lordo?
La seconda finzione serve forse a spiegare, almeno in parte, la prima: non ha senso continuare a considerare questa crisi una parentesi dopo la quale si riprenderà il percorso “virtuoso” di riduzione del debito e di ripristino della “libera concorrenza”. È molto probabile che non siamo di fronte a una parentesi ma, come accennato sopra, a una vera e propria frattura. La “nuova normalità” non sarà dunque, in alcun modo, una riedizione resiliente del passato.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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