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La condanna di Rahul Gandhi e la fragile democrazia indiana

Il leader dell'Indian National Congress, a destra durante un momento della marcia Bharat Jodo Yatra © Suresh Shyamlal Gupta, via Flickr

Il leader del partito del Congresso è stato condannato per diffamazione ed espulso dal Parlamento indiano. Punta il dito contro il governo di destra di Narendra Modi e denuncia gli stretti legami tra il premier e la multinazionale Adani, al centro di uno scandalo finanziario e clientelare. La credibilità del Paese è ulteriormente incrinata

Il 24 marzo l’hashtag #RahulDisqualified è esploso su Twitter in India con una serie di discussioni e meme caustici. Si era appena diffusa la notizia che Rahul Gandhi, erede della più nota e influente dinastia politica indiana e leader dell’Indian National Congress, oggi all’opposizione, era stato rimosso dalla camera bassa del Parlamento in seguito a una condanna per diffamazione. In molti hanno commentato e condiviso la notizia sui social media definendolo “un giorno nero per la democrazia”.

A sostegno di Gandhi in tutta l’India si sono svolte diverse marce, che hanno unito un’opposizione solitamente molto frammentata dietro allo slogan: “La democrazia è in pericolo”. A manifestate contro l’espulsione del parlamentare non c’erano solo i sostenitori del Congress: 14 partiti si sono rivolti alla Corte suprema per denunciare l’assoggettamento degli organi investigativi agli interessi del governo guidato da Narendra Modi, in una condanna che definiscono “politicamente motivata”. L’attuale esecutivo, infatti, non è nuovo all’uso degli organi giudiziari e della legge per colpire gli oppositori e silenziare le voci critiche.

Rahul Gandhi ha 52 anni ed è il leader di uno dei maggiori partiti politici in India, il Congress appunto, che ha dominato la scena politica del Paese a partire dall’indipendenza per 55 anni. Il 23 marzo era stato giudicato colpevole da una Corte del Gujarat del reato di diffamazione. Il fatto risale al 2019 quando durante la campagna elettorale Gandhi avrebbe definito “ladri” tutti quelli che si chiamano “Modi”: cognome abbastanza diffuso in Gujarat, Stato di cui è originario il premier. Il parlamentare è stato condannato a due anni di carcere -il massimo della pena per questi reati- ed è in libertà su cauzione, in attesa di ricorrere in appello; ma l’interdizione dai pubblici uffici ha avuto effetto immediato e rischia di comprometterne la candidatura alle prossime elezioni generali nel 2024.

Fino a poco tempo fa Rahul Gandhi (rampollo della dinastia Nehru-Gandhi, figlio, nipote e pronipote di ex primi ministri) veniva schernito dai membri del Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito ultra-nazionalista hindu guidato dall’attuale primo ministro Modi, che si riferiscono a lui come un “bamboccione ancora sporco di latte”. Anche dopo le dimissioni della madre, Sonia Gandhi, dalla presidenza del partito era percepito come un leader riluttante, privo del carisma necessario per poter contrastare l’ondata color zafferano -il colore dell’hinduismo e del Bjp- e l’appeal della destra hindu, che dal 2014 ha sbaragliato ogni forza politica.

A fine gennaio 2023, Rahul Gandhi ha portato a termine la Bharat Jodo Yatra: una marcia di quattromila chilometri che in 150 giorni ha attraversato l’India dal profondo Sud all’estremo Nord sulla scia di quelle che hanno caratterizzato la storia indiana. L’iniziativa, che aveva lo scopo di unire il Paese contro l’odio e la paura dilaganti, è stata anche il tentativo di riportare il Congress a contatto con la gente e rivitalizzare un partito che è oggi l’ombra di quello che è stato e ha rappresentato per il Paese. La figura di Gandhi, in t-shirt e con una lunga barba incolta, ne è uscita decisamente rafforzata. Oltre alle persone comuni, una serie di celebrities hanno supportato la marcia e si sono unite al leader.

Nella sua prima conferenza stampa dopo l’interdizione dal parlamento, Gandhi ha annunciato che farà tutto ciò che è in suo potere per continuare a difendere la natura democratica dell’India. Ha inoltre sostenuto che il governo Modi ha paura delle sue domande sul cosiddetto “caso Adani”. Gandhi e il Congress hanno infatti ripetutamente chiesto un’inchiesta parlamentare per fare luce sui rapporti che legano il primo ministro al miliardario e imprenditore Gautam Adani, fino a poco tempo fa l’uomo più ricco d’Asia e il terzo al mondo, al centro di uno scandalo finanziario che rischia di compromettere la sfavillante crescita indiana e la credibilità delle sue istituzioni.

Facciamo un passo indietro. A fine gennaio 2023 il Gruppo Adani (uno dei maggiori gruppi imprenditoriali indiani, le cui attività comprendono la gestione di porti e aeroporti e si sono poi allargate a infrastrutture, risorse, logistica, energia, agricoltura fino al settore della difesa) è stato travolto da uno scandalo finanziario che ha portato al crollo delle sue azioni e ha messo in luce i lati oscuri del capitalismo clientelare fiorito negli anni in cui Modi è andato al potere. Dal canto suo il premier, che è ritenuto uno stretto alleato e amico dell’industriale anch’egli originario dello Stato del Gujarat, ha mantenuto un cauto silenzio sul tema.

Il 24 gennaio 2023, la Hindenburg Research -società di ricerca sugli investimenti, specializzata sulle vendite allo scoperto- ha pubblicato un rapporto frutto di due anni di inchiesta che accusa il Gruppo Adani di “sfacciata” frode fiscale, uso di paradisi fiscali, manipolazione del prezzo delle proprie azioni e debito insostenibile. L’azienda ha respinto ogni accusa sostenendo di non aver commesso illeciti, ma questo non è servito ad arginare il crollo delle sue azioni: pochi giorni dopo la Adani Enterprises, principale società del gruppo, ha annullato un aumento di capitale da 2,5 miliardi di dollari.

La fuga di massa degli investitori ha fatto perdere alle diverse società del gruppo 120 miliardi di dollari di capitalizzazione. Anche le ricchezze personali di Gautam Adani hanno subito un duro colpo e si sono ridotte di circa due terzi (il suo patrimonio netto si attesta ora a 62 miliardi di dollari) e l’imprenditore indiano è retrocesso al diciassettesimo posto nella lista delle persone più ricche al mondo. In una risposta alla Hindenburg Research, lunga 413 pagine, il gruppo ha definito il rapporto “un attacco calcolato all’India, all’indipendenza, all’integrità e alla qualità delle istituzioni indiane e alla storia di crescita e all’ambizione dell’India”.

Per certi versi, non sorprende che Adani equipari un attacco al suo gruppo a un attacco all’intero Paese: il settore aziendale indiano è dominato da una serie di conglomerati a controllo familiare con stretti legami con il partito al governo e le fortune dell’imprenditore sono strettamente legate alla crescita dell’India e della destra hindu. Il rapporto che lega Narendra Modi a Gautam Adani è un fatto noto che risale a oltre due decenni fa, quando il primo era chief minister dello Stato del Gujarat e il secondo un promettente uomo d’affari gujarati. L’ascesa di Modi nei ranghi politici del Bjp è andata di pari passo all’espansione dell’impero di Adani.

Dopo aver vinto le elezioni nel 2014 Modi è volato a Delhi sul jet privato del suo amico imprenditore. Da quando il Bjp è al potere il patrimonio di Adani è aumentato di quasi il 250%: gli obiettivi strategici delle sue imprese sono sempre stati in linea con le necessità di crescita dell’India. La narrazione del “modello Gujarat” come locomotiva della crescita indiana su cui è stata imperniata la campagna elettorale del 2014 che ha portato l’attuale primo ministro al potere però sta mostrando tutte le sue ombre. La sua visione di neoliberismo sfrenato -la cosiddetta Modinomics– incentrata sul miglioramento delle infrastrutture per facilitare l’afflusso di capitali e sull’aumento senza precedenti di incentivi e sussidi al settore aziendale per attrarre investimenti, si è appoggiata su una serie di fidati imprenditori miliardari.

In questi anni, molte delle trasferte diplomatiche all’estero di Modi sono stati seguiti da un viaggio di Adani, che ha poi stretto accordi e intese con i governi dei Paesi visitati: il tycoon ha infatti intrapreso un ambizioso programma di espansione dei suoi affari oltre i confini indiani, dal Myanmar al Bangladesh, da Israele all’Australia. Rahul Gandhi e i critici del governo hanno più volte accusato il premier di sfruttate la leva diplomatica indiana per favorire gli interessi del Gruppo Adani.

Intanto, l’autorità di regolamentazione dei mercati, il Securities and exchange board of India, sta indagando sulle accuse mosse contro le società dell’imprenditore gujarati, mentre le Corte suprema ha messo in piedi una commissione incaricata di esaminare le questioni relative al crollo del gruppo. La repentina caduta dell’impero di Adani è diventata motivo di imbarazzo nazionale e rischia di avere ripercussioni ad ampio spettro per il Paese, proprio nell’anno in cui l’India ha la presidenza del G20. L’Adanigate rischia di minare la credibilità indiana, non solo sui mercati finanziari.

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