Diritti / Opinioni
Il processo a Julian Assange è lo specchio della crisi del giornalismo
Il fondatore di Wikileaks ha svelato le colpe del potere. Oggi è isolato dai media, indifferenti alla sua tutela. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
È cominciato il 7 settembre e qualcuno è arrivato a definirlo il “processo del secolo”, eppure nessun giornale italiano (e non va molto meglio all’estero) ha coperto con attenzione le udienze della Corte londinese chiamata a giudicare la richiesta di estradizione presentata dagli Stati Uniti per Julian Assange, il fondatore di Wikileaks. Per Washington il giornalista e attivista australiano è nientemeno che una spia, punibile con una legge del 1917 pensata per colpire chi passa notizie strategiche al nemico. Assange rischia una condanna a 175 anni di carcere, cioè di passare il resto della sua vita nelle galere di quella che viene ancora definita “la più grande democrazia occidentale”. Le sue colpe sono note. Wikileaks rese pubblici dieci anni fa, d’intesa con le cinque maggiori testate giornalistiche mondiali, documenti riservati denunciando stragi, omicidi, torture commessi dall’esercito statunitense soprattutto in Iraq e Afghanistan. Notizie vere e di interesse pubblico. Wikileaks ha poi diffuso milioni di altri documenti diplomatici, sempre in nome della libertà di stampa e del diritto dei cittadini a essere informati, secondo uno dei principi cardine della democrazia.
Perché tanta freddezza dei media internazionali di fronte a un processo così inquietante? Inquietante per l’enormità delle accuse e delle pene previste, per le persecuzioni subite dall’imputato (segregato per sette anni nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, prima che il governo di Quito lo consegnasse alle autorità britanniche), per le modalità stesse del processo in corso a Londra, con Assange chiuso in una stanza di vetro senza possibilità di comunicare, le presenze del pubblico contingentate (ufficialmente a causa del Covid-19), gli osservatori di Amnesty International esclusi dalla presidente del tribunale. Inquietante perché al fondo di tutto c’è davvero la libertà di stampa, la relazione antica fra giornalismo e potere. Va detto che Julian Assange nel corso degli anni ha attirato molte antipatie per il suo carattere tirannico e certe bizzarrie; che è stato accusato di avere interferito a favore di Trump (qualcuno dice d’intesa con Putin) sulle presidenziali statunitensi del 2016 pubblicando documenti che danneggiarono l’immagine di Hillary Clinton; che Wikileaks ha certamente commesso degli errori in questi anni. Ma tanto basta a giustificare l’indifferenza per una vicenda così eclatante che chiama in causa i fondamenti della professione giornalistica, ossia la possibilità concreta di svelare le malefatte del potere?
17: i minuti del filmato “Colletaral murder” diffuso da Wikileaks nel 2010. È la registrazione di un attacco aereo statunitense contro civili iracheni avvenuto nel 2007 nei pressi di Baghdad. Furono uccise 18 persone
Quasi 40 anni fa la pubblicazione dei Pentagon Papers, i documenti “top secret” del governo statunitense sulla sporca guerra in Vietnam, scosse i palazzi del potere ed è tuttora motivo di vanto per il giornalismo investigativo statunitense; è anche un caso citato nei manuali di giornalismo in tutto il mondo. Oggi invece i grandi media tacciono e sembrano aver già dimenticato le verità rivelate da Wikileaks sulle guerre contemporanee: appaiono più sensibili alla richiesta di riservatezza dei governi che al diritto d’informazione dei cittadini. È un segno dei tempi. La solitudine di Assange nella gabbia di vetro a Londra, la difficile sorte toccata alla sua fonte Chelsea Manning, per non dire di Edward Snowden, protagonista di una vicenda simile e ora rifugiato paradossalmente nell’autoritaria Russia di Putin, sono la rappresentazione della crisi profonda che stiamo vivendo. Crisi del giornalismo, incapace di tutelare se stesso, e crisi delle nostre democrazie, ormai post.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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