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Economia / Opinioni

Così l’Italia corre verso le elezioni. Navigando a vista

“Un Paese così indebitato, con banche in grande affanno e con l’eventualità dell’applicazione di clausole di salvaguardia dagli effetti recessivi, in assenza del consenso europeo, può permettersi di navigare a vista senza un bilancio?”. Il commento di Alessandro Volpi

Gli eventi delle ultime settimane sembrano ormai prefigurare lo svolgimento delle elezioni politiche nel prossimo autunno, in realtà senza troppe certezze sulla futura governabilità del Paese. Si tratta di una netta accelerazione che presenta però molti rischi sul piano dei conti pubblici e più in generale della tenuta dell’economia nazionale.
Come hanno messo in luce le “Considerazioni finali” del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il quadro italiano continua ad essere afflitto da due pesanti ipoteche. La prima è rappresentata da un colossale debito pubblico, pari al 133 per cento del Pil, che è cresciuto di ben 17 punti in sei anni, registrando una lievitazione dovuta quasi interamente alla flessione del Pil stesso. Se infatti questo indicatore fosse stato in linea con la media europea, il rapporto tra debito e Pil sarebbe oggi in Italia analogo a quello del 2007. Ma così non è andata e d’altra parte, come ha notato lo stesso Visco, per riportare il rapporto debito-Pil a un più sostenibile 100 per cento entro 10 anni, servirebbe centrare l’impegnativo obiettivo di un avanzo primario del 4 per cento annuo; ciò significherebbe politiche di grande attenzione ai conti pubblici, difficili da perseguire in un continuo clima elettorale.

Dunque l’Italia per fronteggiare questa mole di debito deve collocare ogni anno titoli sul mercato per 400 miliardi di euro, il cui costo dipende, in primo luogo, dall’affidabilità del Paese. Negli ultimi tempi ci ha aiutato molto la Banca centrale europea che, nel solo 2016, ha comprato a tassi negativi titoli del debito italiano per ben 100 miliardi di euro, sostenendo altresì lo sforzo della banche italiane di muoversi nella medesima direzione e fornendo liquidità gratis: ormai però questa esposizione sembra aver raggiunto livelli fin troppo alti con un totale per gli istituti italiani di 400 miliardi di euro in portafoglio. Anche i risparmiatori italiani sembrano meno attratti dai titoli del debito nostrano, come dimostra il calo avvenuto nel 2016 di 115 miliardi del portafoglio titoli e depositi nazionali. Finanziare il debito italiano non sarà facile quindi e l’apertura di una anticipata stagione elettorale rischia di rendere tale finanziamento molto oneroso per il nostro Paese.
Queste difficoltà sono rese ancora più dure dal secondo fattore di criticità indicato da Visco e costituito dai crediti deteriorati presenti nella pancia delle banche italiane pari a 173 miliardi di euro, il 9,4 per cento dei prestiti erogati; una mole molto consistente, esplosa negli ultimi sei anni di oltre sei punti percentuali. In un Paese dove i finanziamenti alle imprese provengono per quattro quinti dalle banche, è evidente che una simile fotografia risulta particolarmente preoccupante. Con banche imbottite di titoli di Stato e di crediti incerti, che hanno però un ruolo decisivo nel sostegno del sistema economico, la probabilità di una ripresa vera pare molto complicata e, come detto, senza una crescita del Pil il debito pubblico diventa sempre più pesante e meno appetibile sui mercati.

Accanto a queste difficoltà si profilano altri pericoli. Uno degli elementi di forza della nostra economia è rintracciabile sul versante delle esportazioni e dei conti con l’estero; nel 2011 l’Italia presentava un deficit di 60 miliardi l’anno nei conti con l’estero e questa condizione la costringeva ad accrescere il proprio indebitamento. Oggi si registra invece un benefico surplus di 40 miliardi che alimenta il risparmio. Su un simile quadro grava però l’incognita del possibile rigurgito protezionistico ventilato da Donald Trump e destinato a rivelarsi particolarmente dannoso per l’Italia che vende propri prodotti negli USA per un valore di 45 miliardi, a fronte di una ben più modesta importazione di prodotti a stelle e strisce per 16 miliardi; un mercato in espansione del 59 per cento dal 2010, il cui raffreddamento peserebbe non poco sulla nostra bilancia commerciale. C’è poi la questione delicatissima delle clausole di salvaguardia, destinate a tradursi in un aumento dell’Iva assai significativo in caso di mancato rispetto dei vincoli europei; un aumento che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan vorrebbe limitare al massimo chiedendo la possibilità di una correzione del deficit per il 2018 pari all’1,7 e non all’1,2, “risparmiando” così 6-7 miliardi di euro. Alla luce di tutto ciò appare legittima la domanda circa l’opportunità di elezioni anticipate che, molto probabilmente, non consentendo l’approvazione della legge di bilancio, determineranno l’esercizio provvisorio dei conti pubblici italiani; ma un Paese così indebitato, con banche in grande affanno e con l’eventualità dell’applicazione di clausole di salvaguardia dagli effetti recessivi, in assenza del consenso europeo, può permettersi di navigare a vista senza un bilancio? La risposta appare scontata, ancor di più se neppure dopo le elezioni affrettate ci sarà certezza del futuro.
Come ha scritto Tony Judt raccontando il pensiero keynesiano, le grandi crisi sono figlie della paura e dell’incertezza.

* Università di Pisa

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