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Economia / Opinioni

L’economia europea riparte. Quella italiana no

© flickr Parlamento europeo

Secondo le stime di Eurostat, il Pil europeo è cresciuto dello 0,5% nei primi tre mesi del 2017 che, su base annua, equivale ad un incremento del 2%. Corrono gli emergenti (Lettonia, Romania) e rifiatano anche Spagna e Portogallo. Il nostro Paese, invece, paga scelte sbagliate su investimenti e fisco. L’analisi di Alessandro Volpi

Nel panorama europeo stanno emergendo due dati importanti e per molti versi inattesi fino a poco tempo fa. Sul piano politico, le recenti consultazioni elettorali hanno visto il tema dell’adesione convinta all’Europa assumere un ruolo centrale nel dibattito pubblico, capace di superare le più tradizionali distinzioni tra destra e sinistra e persino tra progressisti e conservatori. Schierarsi a sostegno dei valori europei, della dimensione politica e culturale europea, e a difesa della moneta unica e della Banca centrale europea è risultata una chiave vincente che ha consentito di contenere in maniera efficace i populismi e le semplificazioni conflittualmente sovraniste. Certo, su questi risultati ha pesato l’avverarsi del trumpismo, considerato il paradigma globale dei nuovi populismi, che ha rapidamente mostrato tutti i limiti dell’improvvisazione incoerente divenuta metodo di governo. L’ultima perla del passaggio di informazioni alla Russia rischia davvero di collocare Donald Trump nel museo degli orrori della storia americana, obbligando cinefili e amanti della letteratura di spionaggio a buttare via le loro copiose raccolte di produzioni da sempre costruite sullo scontro tra americani e russi.

Ma a determinare il successo degli “europeisti” ha contribuito un secondo aspetto rintracciabile nella significativa ripresa dell’economia del Vecchio Continente a cui ha dato una spinta non banale l’azione del banchiere centrale Mario Draghi, forse il più convinto leader europeista oggi in circolazione. Il bazooka imbracciato dal presidente della Bce, che ha inondato di liquidità i mercati, ha consentito alle economie più aggressive di dotarsi degli strumenti per rilanciarsi e, in alcuni casi, anche per ristrutturarsi, puntando sui settori più promettenti. Per effetto di una simile politica monetaria espansiva, a difesa e a sostegno dell’eurozona, la moneta unica si è consolidata fino a raggiungere di fatto una parità di cambio con il dollaro per cui un euro vale ormai quanto un dollaro. Soprattutto la gestione Draghi è diventata il punto di riferimento per l’intero sistema monetario mondiale, riducendo il peso della Federal Reserve, appesantita da strategie fin troppo espansive e dalle infinite incertezze connesse alla presidenza Trump. È avvenuto così che con un euro stabile sono risultati meno costosi i debiti pubblici dei Paesi europei, denominati in euro, che pagano un conto interessi assai più leggero, e sono diventate più convenienti le importazioni in Europa di materie prime e semilavorati, con una decisa spinta competitiva sui costi finali delle produzioni, in grado di compensare ampiamente gli inconvenienti legati ad una moneta un po’ più forte rispetto al passato. Alla luce di tutto ciò i dati macroeconomici di molti Paesi del Vecchio Continente sono sensibilmente migliorati, con un incremento di 5 milioni di posti di lavoro rispetto al 2013. Secondo le stime di Eurostat, il Pil europeo è cresciuto dello 0,5% nei primi tre mesi del 2017 che, su base annua, equivale ad un incremento del 2%. Le valutazioni relative ai singoli Paesi mettono in luce in maniera ancora più chiara questa tendenza al rialzo. I nuovi “emergenti”, come la Lettonia, la Lituania, la Romania, la Repubblica Ceca, sono cresciuti di circa un punto e mezzo, mentre economie fino a poco tempo fa assai pericolanti, come il Portogallo e la Spagna, hanno registrato nei primi tre mesi dell’anno una crescita compresa fra lo 0,8 e l’1%. La Germania ha messo a segno un confortante +0,6, non troppo dissimile dai risultati di Olanda, Belgio e Austria. Performance più scadenti hanno conosciuto il Regno Unito, dove cominciano a farsi sentire gli effetti della Brexit, e la Francia, entrambe ferme allo 0,3%.

L’Italia risulta tristemente in coda a questa classifica con un modesto incremento dello 0,2 che, annualizzato, significa una crescita intorno allo 0,8% in evidente ribasso rispetto alle previsioni del maggio 2016. Con simili numeri è davvero difficile immaginare di tornare ai livelli pre-crisi in tempi ragionevoli. Ma l’elemento di maggiore preoccupazione è rappresentato dal fatto che ormai il nostro Paese appare sganciato dal “ciclo” europeo e le cure poste in essere per le altre realtà, a cominciare dalle strategie della Bce, non bastano per il caso italiano. Il problema, dunque, non è rappresentato dall’euro o dalle ricette della Commissione europea -pur molto pesanti per tutti i membri dell’eurozona- quanto dai limiti intrinseci al sistema economico nazionale che, peraltro, ha beneficiato più di altri di margini di flessibilità non trascurabili rispetto ai vincoli del Patto di stabilità. Non stanno funzionando le politiche economiche italiane sia sul versante delle scelte fiscali sia su quello degli investimenti, condizionati dall’eccessiva incidenza di grandi opere, spesso ferme per le loro farraginosità, e dalla predilezione per i bonus. Con dati così grigi, forse, la strada da intraprendere con convinzione, destinandovi gran parte delle risorse disponibili, è quella di una importante riduzione del cuneo fiscale in grado di rianimare occupazione, investimenti e domanda interna; un obiettivo non perseguibile con soluzioni spot. Altrettanto indispensabile sarebbe affrontare il tema delle banche ancora sclerotizzate da montagne di sofferenze, ormai salite ad una percentuale vicina al 20%, e incapaci di offrire un credito reale e adeguato alle esigenze di cambiamento dell’economia del Paese; spesso la mole di garanzie richieste è talmente impegnativa da indirizzare i finanziamenti solo verso ciò che è già molto solido ma, magari, privo di un vero futuro. E, peggio ancora, di buone idee.

Università di Pisa

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