Diritti / Intervista
“I mandanti dell’omicidio di mia madre, Berta Cáceres, sono ancora impuniti”
Intervista a “Bertita” Cáceres, figlia dell’attivista honduregna assassinata nel marzo 2016. A sei mesi dalla condanna dei sette autori dell’omicidio, la sentenza non è ancora stata depositata: potrebbe dimostrare le responsabilità dell’impresa che sta costruendo la centrale idroelettrica “Agua Zarca”, contro cui si batteva Berta
“Oggi in Honduras puoi scrivere sui muri ‘Fuera JOH’ (Juan Orlando Hernandez, il presidente della Repubblica, ndr) e nessuno lo andrà a cancellare, ma se scrivi ‘Berta Vive’ quel murales sarà già scomparso il giorno dopo”, racconta Bertha Zuniga Cáceres, Bertita, figlia delle leader indigena lenca del COPINH e Goldman Prize 2015, assassinata nella sua casa a La Esperanza nella notta tra il 2 e il 3 marzo del 2016.
È in Italia con la sorella Laura, per partecipare a una serie di iniziative pubbliche promosse dal Collettivo Italia Centro America: dopo aver fatto tappa a Bolzano toccano Padova, Mestre, Milano e la Calabria. Il fantasma di Berta turba i sonni dell’establishment hondureño, le rivendicazioni della famiglia e del COPINH, a tre anni e tre mesi dall’omicidio, spaventano il potere: chiedono giustizia, rivendicano l’esigenza di individuare i mandanti del crimine, sottolineano come a sei mesi dalla sentenza di condanna nei confronti dei sette autori dell’omicidio non sia stata ancora depositato la sentenza. “Una sentenza che non potrebbe che evidenziare e mettere nero su bianco il legame tra coloro che sono stati condannati e la DESA, l’impresa che sta costruendo la centrale idroelettrica ‘Agua Zarca’ sul rio Gualquarque, vicino alla comunità lenca di Rio Blanco, associata al COPINH”, sottolinea Bertita. È l’ultima battaglia di Berta, quella che le è costata la vita.
Perché questa condanna non basta?
BZ È solo una cortina di fumo: il problema, per noi, è che coloro che hanno pianificato e finanziato il suo omicidio e gli attacchi permanenti nei confronti del COPINH sono ancora impuniti. Berta Cáceres e tutto il popolo lenca lottavano per una causa, ma a oggi non si è preso alcun provvedimento per cancellare la concessione idroelettrica del progetto “Agua Zarca”, anche se ci sono elementi chiari e azioni giudiziarie in corso da cui emerge che quell’atto è figlio della corruzione. Per questo, riteniamo che non ci sia stato alcun passo in avanti, nonostante un processo che ha avuto grande eco: per questo non possiamo abbassare le braccia, smettere di protestare in questo momento.
Perché il progetto “Agua Zarca” non viene fermato?
BZ Perché nonostante le azioni legali, e le denunce anche a livello internazionale, questa concessione a Rio Blanco è diventata una battaglia emblematica. Rinunciarvi creerebbe un precedente per il governo e per tutto il sistema di potere che regge l’Honduras. Perché il tema non è solo la concessione, ma anche la violenza, la guerra che si manifesta contro i popoli indigeni per interesse economico, anche quando si parla di energie rinnovabili. La popolazione di Rio Blanco continua a ricevere minacce e nelle ultime settimana il COPINH ha denunciato l’omicidio di due giovani della comunità: l’interesse è anche sulle terre comunitarie, privatizzate per garantire l’installazione dei macchinari necessari a DESA per la realizzazione del progetto. La violenza nella comunità di Rio Blanco e in quelle vicine non potrà essere fermata finché non ci sarà giustizia reale, per mia madre ma anche per tutte le altre persone uccise e minacciate.
Sono passati dieci anni dal colpo di Stato del 28 giugno 2009, che rovesciò il presidente Manuel “Mel” Zelaya. Che cosa è successo nel Paese da quel giorno?
BZ Emergono due grandi temi. Da una parte, c’è tutto il processo antidemocratico, legato alla cooptazione di tutte le istituzioni a interessi di natura privatistica, con l’aumento dell’estrattivismo, la repressione, la militarizzazione sociale. Questo processo caratterizza questi dieci anni: l’oligarchia è sempre più evidente, più potente, ha una maggiore influenza sulla politica.
Dall’altra parte, però, abbiamo assistito ad una crescita continua della coscienza nazionale per la difesa dei diritti fondamentali di tutte la popolazione hondureña. Il potere non ha incontrato la passività della popolazione, ma una condizione di mobilitazione permanente, inaugurata dieci anni fa, che ha creato un processo di presa di coscienza sul potere, che non è solo quello economico e politico, ma anche quello legato al controllo dei media e alla crescita del narcotraffico, un nuovo potere che è determinante per il tema della violenza. Percepisco un sentimento che non so se definire anti-imperialista o anti Stati Uniti d’America. Tutto questo, nei giorni in cui siamo in Italia, si esprime in una mobilitazione e in uno sciopero nazionale per la difesa della salute e dell’istruzione pubblica, ultimo fuoco di una lotta popolare che ha avuto altri momenti chiave, come quello successivo alla frode elettorale che ha visto la conferenza di Juan Orlando Hernandez alla presidente nell’autunno del 2017.
Abbiamo attraversato dieci anni di forte crisi sociale, il cui emblema è la sottoccupazione (il62% della popolazione, nel 2018, pur lavorando non guadagna a sufficienza per vivere, ndr). Questa condizione, insieme alla violenza generalizzata, sono le cause principali dei movimenti migratori.
Le “carovane migranti” dell’autunno 2018, dirette al confine tra Messico e Stati Uniti, hanno conquistato l’attenzione dell’opinione pubblica. I media in Europa hanno identificato nelle maras, le bande criminali, il problema principale della fuga di migliaia di hondureñi dal Paese. È davvero così?
BZ Il fenomeno ha molteplici ragioni. La principale è una crisi sociale senza precedenti. La violenza delle bande criminali c’è, ma oggi questi soggetti sono controllati e guidati da militari e paramilitari, soggetti che fanno parte dell’esercito e che si dedicano alla violenza e al crimine.
Un altro elemento, poi, è quello della violenza di Stato e del despojo, il furto di risorse, che ha reso necessario questo allontanamento di massa: un problema che tocca l’ambito urbano e anche quello periurbano, nei centri più piccoli in cui comunque le persone non vivono più della terra. Per questo, di fronte alla disoccupazione o al subempleo (il lavoro malpagato, ndr) la gente è costretto a fuggire al Nord. Per questo, noi del COPINH continuiamo a batterci perché le comunità contadine possano continuare a vivere e a lavorare le proprie terre. In questi contesti rurali uno può sopravvivere, in condizioni marginali, in una casa di argilla, ma coltivando la terra. Ovvio che in queste zone del Paese non ci sono, oggi, condizioni adeguate di salute ed educazione. Per questo, però, lottiamo per il riconoscimento dei diritti essenziali.
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