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Intelligenze pericolose domani? Disparità sociali ed economiche oggi

Elon Musk e altri esponenti della Silicon Valley hanno denunciato pubblicamente i rischi che le tecnologie conosciute come “Intelligenze artificiali” rappresenterebbero per la società e la sopravvivenza umana. Di che cosa si tratta? E i pericoli paventati sono reali? L’analisi di Stefano Borroni Barale, sostenitore del software libero

© Michael Dziedzic - Unsplash

La definizione moderna di Intelligenza artificiale (IA) si basa su idee vecchie di settant’anni. Infatti, quando Elon Musk e compagni parlano di IA, si riferiscono a delle tecnologie in grado di superare il famoso test di Turing, altrimenti noto come “gioco dell’imitazione”.

Alan Turing, in un fondamentale articolo del 1950, propone un esperimento mentale: chiudere in due diverse stanze un uomo e la sua “macchina di Turing”, permettendo a un esaminatore di interrogarle solo dall’esterno attraverso una tastiera; l’uomo avrebbe dovuto cercare di aiutare l’esaminatore, la macchina cercare di ingannarlo.
La macchina avrebbe vinto se fosse riuscita a convincere l’esaminatore di essere una persona, unicamente rispondendo per iscritto alle sue domande.
All’epoca una condizione del genere sembrava davvero molto difficile da realizzare, ma oggi, settant’anni di evoluzione tecnologica dopo, sembra un traguardo alla portata di software come ChatGPT. Al tempo stesso il web è pieno di fallimenti al test da parte di ChatGPT: vuoi per “allucinazioni” (risposte completamente fuori tema), vuoi per errori grossolani (anche in operazioni banali); in ogni caso tali da rivelare la vera natura della macchina, ancora ben lontana dall’essere intelligente.

Macchine senzienti e altre credenze tecno-magiche
Se invece prendiamo per buona la definizione di “intelligenza” data da Turing, sorvolando sulla riduzione dell’intelligenza alla capacità di operare in maniera soddisfacente con i simboli dell’alfabeto senza investigare sulla capacità della macchina di “comprendere il senso” di tali simboli, otteniamo la ferma convinzione dell’esistenza -qui e ora- di macchine senzienti.

È in questo contesto che si colloca la lettera: un contesto in cui è normale parlare, con assoluta convinzione, dell’ipotesi di fondere l’uomo con le macchine per conseguire la vita eterna (transumanesimo) o del rischio di una “apocalisse delle macchine” in cui queste, come in “Matrix” o “Terminator”, sarebbero pronte a mettere fine alla nostra esistenza sul Pianeta, dopo averci superato nell’evoluzione (singolarismo).

La guerra per l’IA
Com’è possibile, dunque, che da un consesso così smaccatamente tecno-entusiasta venga un monito a riflettere e procedere con calma, democratizzando la tecnologia?

Per comprenderlo bisogna mettere insieme diversi pezzi di un puzzle complesso. Anzitutto Elon Musk aveva tentato, nel 2018, di scalare OpenAI e prenderne il controllo, senza successo. In quel momento è nata la collaborazione che ha portato l’azienda di Sam Altman nell’orbita di Microsoft.
Infatti, Bill Gates si è sentito in dovere di intervenire prontamente in un campo che non dovrebbe più interessarlo, per rispondere che “una moratoria non cambierebbe la sostanza del problema”.
Questo fa pensare che le vere motivazioni abbiano a che fare con uno “scontro al vertice” tra colossi come Microsoft, l’emergente impero di Musk, Meta (che ha da poco lanciato la sua versione “open source” di GPT, chiamata LLaMA ) e Google con il suo Bard.

In tale ottica una “moratoria” avrebbe chiaramente l’effetto di dare un po’ di fiato a chi, come Musk, sta rincorrendo, e ridurre il vantaggio che OpenAI ha conquistato grazie ai pesanti investimenti di Microsoft.

E qui da noi?
Per una volta l’Italia è in prima fila. Il 30 marzo il Garante per la protezione dei dati personali, organo collegiale usualmente rappresentato pubblicamente dall’avvocato Guido Scorza, ha notificato a OpenAI la violazione di diversi principi del Regolamento generale per la protezione dei dati (Reg. 679/2016, acronimo “Gdpr”). I punti più delicati sollevati dal Garante sono quelli relativi al fatto che, dall’informativa scritta da OpenAI, non risultava abbastanza chiaro il fatto che le conversazioni intrattenute con il bot sarebbero state utilizzate per alimentare l’IA, la mancanza di efficaci metodi per limitare l’accesso ai minori di 13 anni e, infine, la cosa più grave: il fatto che ChatGPT restituisca dati personali uniti a informazioni false, per esempio nella costruzione di biografie personali.

Questo è un punto chiave per OpenAI, giacché correggere questo tipo di errori è costoso, in quanto necessita intelligenza umana, come mostrato nella primissima fase della creazione di ChatGPT-3, quando un piccolo esercito di operatori del Kenya è stato assunto per addestrare il modello grezzo. Sottopagato.

Il richiamo dava tempo all’azienda 20 giorni (prolungabili) per rispondere e mettersi in regola. OpenAI ha invece optato per la linea di scontro frontale: chiudere l’accesso al suo sito in Italia e diffondere la vulgata secondo la quale il “Garante, nemico dell’innovazione, ha chiuso OpenAI in Italia”. Falso, visto che la versione precedente è ancora integrata in Bing, a dimostrazione che non è in atto alcuna caccia alle streghe, semmai il primo serio tentativo di fare un passo concreto verso l’apertura di un indispensabile e urgente dibattito su questi temi.
Entro fine 2023 è attesa la promulgazione della direttiva europea sull’IA che, pur se “annacquata” rispetto al testo originale, potrebbe risultare una risorsa utile per chi spinge verso una tecnologia più partecipata. La direttiva prevede infatti che nelle cause per danni generate da questa nuova tecnologia, l’onere della prova sia in carico all’azienda che fornisce il servizio e non al danneggiato.

Dunque, nessun pericolo?
Se l’allarme lanciato dalla Silicon Valley è come minimo prematuro (se mai avremo una Intelligenza artificiale generalista – Agi è molto difficile che sia nel prossimo secolo), questo non significa che l’IA sia sicura.
Negli ultimi tre anni in molti hanno descritto i notevoli problemi che l’IA, e le tecnologie in generale, possono causare ai diritti umani, alla società e al mondo del lavoro.
Penso ad accademici come Dan McQuillan, Kate Crawford e Teresa Numerico, ad hacker come Carlo B. Milani e ad attivisti digitali come Max Schrems, “responsabile” delle due sentenze europee che portano il suo nome e che stanno mettendo i bastoni tra le ruote all’applicazione dell’IA nella scuola, con progetti finanziati da Google e Meta e, purtroppo, anche dai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Tali fondi, infatti, rischiano di andare a consolidare la presenza di piattaforme come Google Workspace for Education, che sta raccogliendo -nell’inconsapevolezza generale- i dati necessari a costruire la prossima IA educativa, che dovrebbe sostituire i docenti nei piani di Google e Meta. Per scongiurare questo scenario si sono mobilitate sia Assoli (l’Associazione per il software libero), che ha scritto al governo per ottenere che le scuole si dotino di piattaforme libere, sia il sindacato della scuola Cub Sur che ha lanciato una campagna segnalando, oltre alle note problematiche di privacy e trasparenza, anche la violazione dello Statuto dei lavoratori operata sistematicamente da Google.

L’IA di oggi è una tecnologia che lavora alacremente all’allargamento della disparità sociale ed economica e al suo consolidamento in apparati rigidi, regolati dalle macchine.
Alcuni esempi: la tecnologia di riconoscimento facciale utilizzata come arma contro i migranti, gli algoritmi di assegnazione delle commesse che rendono la vita dei rider un’esperienza che ricorda lo schiavismo e l’algoritmo delle graduatorie provinciali per le supplenze che da due anni priva gli allievi più fragili, ossia persone con disabilità e Bes, delle loro figure di riferimento, spedendo i professori precari in una girandola di cattedre che non li vede mai ritornare nella stessa scuola, al contrario di quanto avveniva con le nomine in presenza.
Alla luce di questa realtà viene naturale pensare che tutto questo gridare “al lupo, al lupo” nella direzione di un pericolo ipotetico nel futuro, abbia come effetto collaterale di togliere attenzione ai danni reali nel presente.

Stefano Borroni Barale, classe 1972, è fisico teorico. Inizialmente ricercatore nel progetto Eu-DataGrid (per Infn To), dopo otto anni nella formazione sindacale internazionale e una (triste) parentesi nel privato, oggi insegna informatica in un Iti del torinese. Sostenitore del software libero da fine anni 90, è autore per Altreconomia del manuale di liberazione informatica “Come passare al software libero e vivere felici” (edito nel 2003).

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