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L’incostituzionalità del “decreto Salvini”

Il ministro dell'Interno, Matteo Salvini

I motivi di sospetta incostituzionalità del decreto Salvini sull’immigrazione e la sicurezza (decreto-legge n. 113 del 2018, convertito nella legge n. 132 del 2018) sono numerosi. Francesco Pallante, professore associato di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino, li ha messi in fila

Il primo motivo di sospetta incostituzionalità del “decreto Salvini” è senz’altro legato alle modalità di approvazione: l’ennesimo utilizzo di un provvedimento avente carattere emergenziale, come il decreto-legge, per far fronte a un fenomeno avente carattere strutturale, come l’immigrazione, contraddice l’art. 77 Cost., che limita l’utilizzabilità di tale strumento normativo ai “casi straordinari di necessità e d’urgenza”. Delle due l’una: o – come ripetutamente affermato dal ministro dell’Interno – la politica governativa di repressione dei flussi migratori è un successo, e dunque non c’è alcuna emergenza immigrazione; oppure l’emergenza c’è, ma allora se ne deve dedurre il fallimento delle misure governative. In entrambi i casi, quel che di sicuro difetta è la straordinarietà della situazione (che, pure, è requisito di legittimità del decreto-legge): è dal 1973 che il saldo tra immigrazione ed emigrazione in Italia è a favore della prima ed è almeno dall’inizio degli Anni Novanta che l’afflusso di migranti si è stabilmente consolidato come un dato di ordinaria realtà (sia pure assumendo, di volta in volta, forme differenti per provenienza e intensità).

Dal punto di vista contenutistico, le disposizioni di nuova introduzione si pongono in tensione con diversi articoli della Costituzione:

  • anzitutto, con l’art. 10, co. 3, per la mutilazione della già minimale normativa di attuazione del diritto d’asilo, risultante: dall’eliminazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari (permanendo solo quelli, di utilizzabilità più circoscritta, legati al riconoscimento dello status di rifugiato e al conferimento della protezione sussidiaria); dall’aumento delle ragioni – in taluni casi assai generiche – di revoca dello status di rifugiato e della protezione umanitaria; dalla discutibile qualifica di determinati Paesi come “sicuri” e dunque ostativi, per chi vi provenga, al riconoscimento di qualsivoglia forma di protezione;
  • di seguito, con l’art. 13, a causa dell’indebolimento della libertà personale degli stranieri tramite provvedimenti amministrativi (e non, come richiede la Costituzione, giurisdizionali): in particolare incrementando da 90 a 180 giorni il periodo di trattenimento per gli irregolari in attesa di espulsione nei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e prevedendo forme di trattenimento anche per i richiedenti asilo;
  • ancora, con gli artt. 24 e 27, co. 2, per via della compressione del diritto di difesa e della presunzione di innocenza conseguente all’obbligo di lasciare il territorio nazionale in caso di diniego di asilo per sottoposizione a procedimento penale o condanna non definitiva, anche in pendenza di ricorso;
  • infine, con l’art. 2 e con l’insieme delle previsioni costituzionali sui diritti individuali per la riduzione dei programmi di integrazione svolti negli Sprar (riservati ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati, con esclusione dei richiedenti asilo) e per i vincoli limitativi all’iscrizione anagrafica che condiziona l’esercizio di diritti quali la salute, l’istruzione, il lavoro.

È agevole intuire gli effetti pratici di grande rilevanza che deriveranno dalla nuova normativa che limita l’accoglienza: l’effetto sarà l’ulteriore precarizzazione della condizione degli stranieri, a discapito della sicurezza loro e degli stessi cittadini italiani. Un esito altamente indesiderabile, salvo per chi abbia interesse a speculare politicamente sulla diffusione di sentimenti di paura presso la popolazione.

Un ultimo profilo del decreto sicurezza merita attenta considerazione. Si tratta della previsione che introduce un’inaudita discriminazione all’interno della categoria dei cittadini, basata sulla possibilità, in caso di condanna definitiva per reati di matrice terroristica, di revocare la cittadinanza a coloro che l’hanno acquisita nel corso della loro esistenza e non anche a coloro che cittadini lo sono per nascita da genitori italiani. Il problema è che la cittadinanza è istituto necessariamente unitario, indivisibile in categorie differenziate pena la sua stessa negazione. Essere cittadini significa, fin dalla Rivoluzione francese, avere gli stessi diritti e doveri nei confronti dell’autorità. Se l’autorità può di più o di meno nei confronti di qualcuno, allora a rilevare è il privilegio di chi ha meno doveri o più diritti, vale a dire lo status che differenzia il privilegiato rispetto agli altri. Esattamente com’era prima del 1789. Ed esattamente come ora, in Italia, dispone l’art. 14 del decreto Salvini: quando si tratterà di punire il responsabile di talune condotte criminali, a venire in luce non sarà, infatti, quel che egli ha compiuto, ma chi è: se un membro della categoria privilegiata oppure no. Il punto è decisivo: la stessa azione sarà punita diversamente a seconda di chi ne è l’autore, in clamorosa violazione del principio di uguaglianza formale sancito dall’art. 3, co. 1, Cost.

In conclusione, il decreto sicurezza è un provvedimento che non solo rischia di aumentare l’insicurezza complessiva della società italiana, ma che, tramite la disposizione sulla cittadinanza, si configura altresì come il più grave scostamento dal quadro costituzionale mai verificatosi nella storia repubblicana.

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