Diritti / Attualità
In Piemonte le cosiddette associazioni “pro-vita” ricevono fondi per operare nel pubblico
A oltre 10 anni dal primo tentativo della Giunta leghista di Roberto Cota, la Regione -per mano dell’assessore al Welfare di Fratelli d’Italia- ha stanziato 400mila euro per 19 progetti volti alla presunta “tutela materno infantile”. “È una crociata contro il diritto di aborto”, denunciano le realtà che difendono lo spirito della legge 194
Nel dicembre di quest’anno si è chiuso, dopo un periodo di gestazione lungo più di 10 anni, il progetto politico della Regione Piemonte attraverso il quale le associazioni cosiddette “pro-vita” hanno ottenuto riconoscimento formale e sostegno economico per poter operare nel servizio sanitario pubblico. Un’idea nata nel lontano 2010 dalla Giunta leghista guidata da Roberto Cota e portata a compimento dall’attuale assessore al Welfare regionale Maurizio Marrone (Fratelli d’Italia): a inizio mese, infatti, i 400mila euro previsti dal fondo regionale “Vita nascente” sono stati stanziati per finanziare 19 progetti con lo scopo, secondo quanto scritto nella delibera del bando, “di consentire alle donne di superare le cause socio-economiche che potrebbero indurre alla scelta dell’aborto”.
Sotto un presunto scopo pratico, però, se ne nasconde uno ideologico. Già nel 2021, la Regione aveva infatti ostacolato l’introduzione della pillola abortiva nei consultori per poi approvare a ottobre 2022 un fondo destinato alle associazioni che, come recita la delibera, operano “nel settore della tutela materno infantile”. Le risorse ripartite di recente vengono così destinate alla “realizzazione di progetti di accompagnamento individualizzati” e “finalizzati alla promozione del valore sociale della maternità e al sostegno delle donne gestanti e/o neomamme ed alla tutela della vita nascente”. Più nello specifico, il testo del bando “Vita Nascente” approva le seguenti azioni: “Ascolto e consulenza attraverso la presenza nei presidi sanitari; supporto alle donne in attesa per accompagnarle in una scelta individuale consapevole; progetti di sostegno alle mamme sia di natura economica sia attraverso la fornitura di beni di prima necessità; percorsi di sostegno psicologico individuale e di gruppo e di accompagnamento di auto mutuo aiuto”. Inoltre il fondo prevede contributi per le spese di casa -per le bollette, l’affitto o le rate del mutuo, ad esempio- e per quelle legate alla cura del bambino fino ai 18 mesi. Una parte del fondo, fino al 10%, viene invece usato per le campagne pubblicitarie delle associazioni, utilizzando anche il logo della Regione. Fin qui le risorse disponibili si attestano sui 400mila euro: a ogni progetto sono state destinate cifre dai 15 ai 26mila euro. C’è poi una parte del fondo, che vale 60mila euro, che verrà invece destinata a quattro soggetti gestori delle funzioni socio-assistenziali -i Comuni di Torino e di Novara e i Consorzi Cissaca di Alessandria e Csac di Cuneo- al fine di sostenere i nati da “parti segreti”, cioè in quei casi in cui la madre non riconosca il figlio.
Per capire però come si è arrivati a scegliere i 19 progetti di accompagnamento alle madri che intendono abortire, di fatto convincendole a cambiare idea, occorre fare un passo indietro. Le risorse del fondo non erano aperte a chiunque ma solo a quelle associazioni “iscritte negli elenchi approvati dalle Asl”. Stiamo parlando, quindi, di una cerchia di associazioni riconosciute. Ma questo “riconoscimento” è opera di un’altra iniziativa portata a compimento dall’assessore Marrone, di nuovo nel 2021, quando era stato istituito per ogni provincia un elenco di associazioni private abilitate a collaborare con il settore pubblico. Secondo la rete per l’autodeterminazione delle donne “Più di 194 voci”, le 27 associazioni che hanno risposto a quell’appello e sono state quindi inserite negli elenchi provinciali sarebbero tutte associazioni che si definiscono “pro vita” -un modo più tenue per definire le associazioni antiabortiste- tranne una (quella che ha risposto in provincia di Alessandria, mentre nella provincia di Novara non ha risposto nessuno).
L’idea di una lista di associazioni antiabortiste che possono intervenire nel settore pubblico, come detto, non è di Marrone. Il primo tentativo di istituire un elenco di questo tipo è infatti stato portato avanti dalla Giunta Cota. Questo succedeva nel 2010 ma il tentativo fu bloccato dal Tar della Regione Piemonte grazie a un ricorso presentato dalla Casa delle Donne di Torino e impugnato dall’avvocata Mirella Caffaratti. “All’epoca la deliberazione della Giunta Cota ammetteva solo le associazioni che avevano nel proprio statuto il requisito della tutela della vita fin dal concepimento. Un fatto del tutto discriminatorio e non giustificato”, spiega oggi Caffaratti ad Altreconomia. “L’articolo 1 del codice civile stabilisce che la capacità giuridica si acquisisce alla nascita. Attualmente c’è un tentativo da parte del senatore Maurizio Gasparri di spostare tale acquisizione al momento del concepimento”. All’epoca il Tar diede ragione alla Casa delle Donne e Cota mise da parte la delibera. Ma dieci anni dopo, nel 2020, ecco che l’attuale assessore Marrone rispolvera la delibera di Cota e con un’altra delibera di Giunta (quindi senza discussione politica con l’opposizione) istituisce nuovamente l’elenco delle associazioni tutelate dalla Regione e riconosciute dall’Asl, sostituendo la frase bocciata dal Tar con un più generico “operanti nel settore della tutela materno infantile”. Per Caffaratti “la sostanza non cambia. Sono comunque allo studio azioni legali di contrasto a questo provvedimento”.
E se al bando pubblico si sono presentate solo associazioni “pro-vita”, il perché lo spiega ancora Caffaratti: “Chi ha interesse a entrare negli istituti pubblici e intercettare (‘intercettate allo sportello’ è l’esatta espressione usata dalla Regione nel bando, nda) le donne sono solo le associazioni antiaborto. Perché nel settore pubblico tutti i servizi di accompagnamento della donna in stato di gravidanza sono già garantiti: ci sono i consultori, i servizi sociali, gli psicologi e così via. Nessuno di questi soggetti ha il chiaro intento di convincere le donne a non abortire: in questo senso, quella della Regione va letta come una crociata contro il diritto di aborto”.
La delibera scredita implicitamente il servizio offerto dal pubblico. “Invece di potenziare il servizio pubblico con aumento del personale e della strumentazione, questo viene svilito preferendo ‘appaltare’ ai privati”, aggiunge Elena Petrosino, portavoce della Cgil di Torino. “Nella delibera si dice che le associazioni dovranno lavorare insieme ai servizi sociali ma è un’operazione di facciata, perché la progettualità dell’intervento rimane in capo ai privati, attraverso le quali la Regione può imporre più facilmente la sua battaglia ideologica sull’aborto”. Secondo la Cgil, nella Città Metropolitana di Torino 76 nuovi contratti su 100 sono precari e/o a breve termine. “Lavoriamo sulla stabilizzazione e la qualità del lavoro con investimenti pubblici e privati, rafforziamo i presidi pubblici come gli asili nido per permettere alle persone di autodeterminare le proprie scelte di vita, senza utilizzare la fragilità, anche economica, come scusa politica per attaccare i diritti dentro e fuori dai luoghi di lavoro. “Assumere più operatori sociali sarebbe stato più efficace per applicare la prima parte della legge 194, cioè poter promuovere azioni di prevenzione, concetto completamente assente nell’impostazione regionale, anche nel neonato fondo Vita Nascente”.
La legge 194, approvata nel 1978, consente alla donna di ricorrere all’interruzione di gravidanza in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione, mentre tra il quarto e il quinto mese è possibile ricorrere all’aborto solo per motivi di natura terapeutica. “Se si guardano le statistiche, la scelta di abortire per motivi economici è residuale”, aggiunge Carla Quaglino, co-presidente della Casa delle Donne di Torino. “Il significato dell’autodeterminazione della donna è un tema enorme, che noi abbiamo visto modificarsi nel tempo. Ho vissuto la fase di stesura della legge 194, ancora oggi in vigore: ci siamo battute per avere una legge che non mandasse in cella le donne, che impedisse loro di morire, e poi che l’aborto fosse gratuito nelle strutture pubbliche e che aiutasse le donne più povere. A quel tempo si contavano troppe morti per aborto clandestino e, generalmente le donne erano spinte a tale scelta perché avevano già figli e non ce la facevano a mantenerne altri. Oggi le motivazioni sono cambiate”.
Secondo Quaglino è cambiata anche la narrazione intorno “a partire dai gruppi che si fanno chiamare pro-vita: sembra che battersi per la vita sia diventato il valore degli antiabortisti e che noi femministe, donne e democratiche, siamo per la morte. L’aborto è sempre esistito storicamente: la differenza è se si muore o meno. Noi siamo contro gli aborti clandestini, la legge 194 è una legge per la vita ma dagli antiabortisti ne è stato ribaltato il senso”. La legge 194 è vecchia di 44 anni, fu il frutto della mediazione tra le femministe dell’epoca e la Dc (la dimostrazione di tale mediazione sta anche nel riconoscimento degli obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche) ma l’ultima parola è sempre stata quella della donna: “questa legge andrebbe implementata perché ha molti limiti, anche storici, ma l’attuale classe politica non è all’altezza di ipotizzare qualche nuova mediazione, non ha lo spessore dei politici del passato. Oggi ci si muove con le ideologie. Quindi teniamoci questa legge stretta e facciamola funzionare così com’è”.
© riproduzione riservata