Diritti
In cammino con i migranti, lungo le rotte tra Messico e Stati Uniti
Le “case” di Tenosique, Tapachula, Ixtepec e Cordoba garantiscono ospitalità e un rifugio sicuro a chi fugge da povertà e bande criminali, da Guatemala, Honduras ed El Salvador. Molti sono minorenni. Abbiamo ascoltato le loro storie
Elias ha trent’anni ed è honduregno. L’ho conosciuto all’inizio del suo viaggio verso gli Stati Uniti, nella “casa del migrante” La72 a Tenosique, la prima tappa in Messico per quasi tutti i centroamericani. Sono decine di migliaia quelli che ogni anno passano da qui per raggiungere il sogno americano: per quanto sia complesso trovare cifre certe, in un fenomeno sotterraneo come la migrazione “illegale”, secondo un report elaborato dall’ITAM (Instituto Tecnologico Autonomo de Mexico) tra il 2005 e il 2015 ci sono stati circa due milioni e trecentomila migranti in transito attraverso il Paese. Lo scorso anno sarebbero stati 220mila. Nel 2005 erano 400mila migranti, ma in seguito il flusso si era abbassato, almeno fino al 2011.
Elias non aveva mai pensato di intraprendere il viaggio verso gli Stati Uniti. Negli ultimi mesi, racconta, si sono sommati una serie di fattori: un matrimonio terminato che continuava a tormentarlo, uno stato di povertà che non gli permetteva più di mantenere sua madre e i suoi sei fratelli minori, un fratello morto ucciso dalla Mara Salvatrucha (una delle bande criminali, chiamata anche MS, che si contende il territorio delle più importanti città centroamericane, tra cui San Pedro Sula, la seconda città dell’Honduras, quella da dove scappa Elias). “Ero depresso, triste, non vedevo una via d’uscita, vorrei rifarmi una vita”, dice abbassando il tono della voce.
Le cause principali che portano i migranti a partire sono la miseria (secondo l’Istituto nazionale di statistica honduregno il 66,5% della popolazione in stato di povertà) e la criminalità.
Armando e Manuel hanno 15 e 16 anni, e sono honduregni anche loro, appena arrivati nell’albergue di Tenosique. Manuel parla poco, mentre Armando mi dice chiaramente che è scappato. “Mia mamma è sola con i miei due fratelli piccoli, mio papà torna spesso ubriaco e la picchia, io invece sono andato a scuola fino a 11 anni poi ho dovuto lavorare come aiuto meccanico, fino a quando la Mara 18 non è venuta a cercarmi, e se non mi fossi unito a loro avrebbero ucciso la mia famiglia. Così sono partito il giorno dopo la seconda minaccia: non conosco bene il cammino ma se Dio vuole arriveremo”. La MS e la Mara 18 sono due bande sanguinose che hanno messo in ginocchio l’Honduras: non esistono dati ufficiali, ma l’ultimo rapporto redatto da USAID (United States Agency for International Development) parla di circa 36mila membri attivi, di cui circa 5mila minori.
I migranti scappano, e in questa fuga quello che lasciano è solo l’inizio di una serie di pericoli che dovranno affrontare lungo il tragitto. Proprio per questo, nelle due città di confine con il Guatemala, Tenosique (nello Stato di Tabasco) e Tapachula (in Chiapas), il numero di richiedenti asilo è drasticamente aumentato. Delle persone presenti, circa l’85% sta iniziando il procedimento per l’asilo, anche se poi non ne aspetteranno l’esito (molti utilizzano il documento come espediente per viaggiare liberamente almeno nello Stato dove si è presentata la richiesta), e anche se questo asilo sarà negato. “L’anno scorso solo il 10% delle richieste ha avuto esito positivo, ma gli honduregni partiranno, ritorneranno, non si fermeranno perché non hanno più niente da perdere”, dice fray Tomás González Castillo, direttore de La72.
Dalla richiesta d’asilo sono comunque esclusi i minori, per i quali il Messico propone come soluzione l’inserimento nel programma DIF (Desarrollo Integral de la Familia), fino al raggiungimento della maggiore età.
Oscar è un altro migrante salvadoregno di quindici anni, scappato alle minacce della Mara 18: a Tapachula è stato avvicinato dalla MS, e probabilmente ne è entrato a far parte. Né avvocati né personale dei centri di accoglienza sono stati in grado di dare una soluzione per questo ragazzo: nel suo caso la richiesta di asilo, secondo la Commissione messicana di aiuto per i rifugiati, non può nemmeno cominciare, e da qui l’impossibilità di intraprendere altre soluzioni, senza soldi e senza un posto dove andare, fermo in un limbo silenzioso.
Il fallimento del Messico nella politica dei minori è stato richiamato da diverse organizzazioni nazionali e internazionali. Secondo i dati di Human Rights Watch, nel solo 2015 il Paese ha accolto 18.650 minori non accompagnati e ha dato rifugio a meno dell’1%.
In questo scenario drammatico, si innesta la legge conosciuta come Plan Frontera Sur, del luglio 2014, che ha modificato e peggiorato le condizioni di transito dei migranti. “È come se stessero abbassando sempre più la frontiera americana”, dice una migrante guatemalteca al suo secondo tentativo di migrazione. La legge doveva, secondo quanto annunciato dai presidenti di Messico e Guatemala, proteggere i migranti, sensibilizzare contro la violenza che questi subiscono e fare in modo che salissero il meno possibile sul famoso treno merci -conosciuto come “la Bestia”- utilizzato abusivamente per raggiungere la frontiera americana.
Così è stato solo su quest’ultimo punto: i migranti sono oggi costretti ad abbandonare, in alcuni tratti, la via del treno e prendere strade alternative, più pericolose, attraverso le montagne e il deserto, camminando anche per quindici giorni di seguito. In generale, le risposte date dal sistema messicano si sono concentrate sul rafforzamento delle politiche migratorie tramite una militarizzazione della frontiera meridionale, l’applicazione della misura di detenzione automatica specialmente per migranti illegali e l’uso di procedimenti accelerati di deportazione.
A Città del Messico rivedo Elias. Lo incontro alla fermata della metro Pino Suarez, ha i capelli corti, i pantaloni rotti, mi sembra molto più magro e ha voglia di parlare di queste settimane di viaggio esasperante. Passeggiamo di fronte al Monumento de la Revolucion vicino all’albergue “Casa de los amigos” e mi dice che poco prima di Tierra Blanca (nello Stato di Veracruz) è stato sequestrato da uomini del cartello della droga degli Zetas: “Sono arrivati incappucciati e armati, volevano i numeri di telefono dei nostri familiari negli Stati Uniti per chiedere il riscatto. Ci hanno bendato e portato in una casa, dove c’erano altre sessanta persone. Sono rimasto sempre bendato, sentivo solo i miei compagni mentre venivano picchiati. Non so per quale ragione, ma dopo alcune ore io ed altri tre siamo stati liberati; derubati di quello che avevamo ma liberati”. Secondo l’organizzazione per i diritti umani Washington Office on Latin America, 20mila migranti sono sequestrati ogni anno. Non si conosce quanti siano quelli che vengono liberati.
A Città del Messico Elias ha il contatto con un pollero, un trafficante di essere umani: dovrebbe riprendere con lui il cammino, ma è costretto a rinunciare: il “passaggio” oltre la frontiera costa in questo caso 5mila dollari, che lui non ha. Decide di continuare il viaggio sul dorso della Bestia, che rappresenta per i migranti una grande fonte di pericoli. Tra questi c’è quello di subire un assalto: le autorità, gli Zetas e le Maras, ma anche semplici cittadini messicani –colpevoli per oltre il 25,56% dei crimini contro i migranti, secondo i dati della Red de Documentación de las Organizaciones Defensoras de Migrantes-, estorcono loro denaro. “Dopo averci spruzzato lo spray al peperoncino, le guardie di sicurezza del treno ci hanno buttato giù, era il 30 dicembre”, racconta Juan Carlos, 27 anni, gettato dalla Bestia in corsa con suo padre, 61 anni. Quando lo incontro è fermo da quattro mesi nell’albergue gestito da Las Patronas, vicino a Cordoba (Veracruz), e cammina con le stampelle: nella caduta il treno gli ha tagliato due dita del piede sinistro, e la ferita si sta lentamente rimarginando: non ci saranno indagini, non ci sarà un processo, per pigrizia degli avvocati incaricati dei diritti umani e perché in Messico l’ingiustizia non fa più clamore, è prassi. E ad Alex è andata peggio: lo trovo nella casa del migrante “Hermanos en el camino” a Ixtepec (Stato di Oaxaca). Ha una cuffia che gli copre qualche centimetro di braccio sinistro rimasto attaccato alla spalla. “Era ubriaco ed è caduto dal treno, molti dei migranti prima di partire bevono per farsi coraggio”, mi dice una delle volontaria dell’albergue.
La migrazione verso gli Stati Uniti costituisce un corridoio di violazione costante di diritti umani e vive di un meccanismo innescato da una continua alternanza tra andare e venire. Tra il 2014 e il 2015 sono stati deportati 150.000 honduregni, circa l’1,8% della popolazione totale del Paese.
A inizio aprile ho ricevuto un messaggio di Elias: è arrivato a Houston, Texas.
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