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Il ruolo delle società finanziarie europee a sostegno dell’occupazione in Palestina

© Taylor Brandon, unsplash

Tra gennaio 2020 e agosto 2023 banche, fondi pensione e assicurazioni hanno intrattenuto rapporti con oltre 50 imprese coinvolte negli insediamenti illegali in Cisgiordania, con prestiti o sottoscrizioni per oltre 160 miliardi di dollari. Nella classifica anche Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il report di “Don’t buy into occupation”

Le istituzioni finanziarie europee -banche, compagnie assicurative e fondi pensione- svolgono un ruolo fondamentale per garantire il funzionamento, la sostenibilità e l’espansione delle colonie israeliane nei Territori palestinesi occupati. E lo fanno erogando prestiti e finanziamenti alle aziende coinvolte più o meno direttamente nell’occupazione (da Airbnb a Caterpillar, dall’impresa di costruzioni israeliana Ashtrom a quella di telecomunicazioni Altice) oppure acquisendo azioni e obbligazioni di queste società.

Secondo le stime contenute nell’edizione 2023 del rapporto “Don’t buy into occupation” pubblicato lo scorso dicembre, tra gennaio 2020 e agosto 2023 sono state 776 le istituzioni finanziarie europee che hanno intrattenuto rapporti finanziari con 51 imprese attivamente coinvolte negli insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania.

Il report è il frutto del lavoro di un’omonima coalizione che riunisce 25 organizzazioni palestinesi ed europee che hanno messo sotto la lente d’ingrandimento l’attività di centinaia di istituzioni finanziarie e i loro collegamenti. “Durante il periodo analizzato, sono stati erogati 164,2 miliardi di dollari sotto forma di prestiti e di sottoscrizioni. Inoltre, ad agosto 2023, gli investitori europei detenevano anche 144,7 miliardi di dollari in azioni e obbligazioni di queste società”, si legge nel report.

“Don’t buy into occupation” evidenzia come le imprese coinvolte (direttamente o indirettamente) nelle attività degli insediamenti israeliani “corrono un rischio elevato di essere coinvolte in gravi violazioni del diritto umanitario internazionale, di essere complici di crimini di guerra e crimini contro l’umanità e di contribuire alle violazioni dei diritti umani”. Non essendoci dubbi sulla natura illegale delle colonie israeliane in Cisgiordania (riconosciuta anche dall’Alto commissario dei diritti umani delle Nazioni Unite) “è difficile immaginare uno scenario in cui un’azienda possa impegnarsi in attività negli insediamenti in modo coerente con i principi guida delle Nazioni Unite e con il diritto internazionale”, sottolineano gli autori della ricerca.

Nel periodo preso in esame, i primi dieci finanziatori delle aziende attive nelle colonie in Cisgiordania hanno erogato complessivamente 116,5 miliardi di dollari sotto forma di prestiti e finanziamenti. A guidare la classifica è la francese Bnp Paribas con oltre 22 miliardi di dollari, seguita dall’istituto di credito britannico Hsbc (14,2 miliardi) e Deutsche Bank (13,2 miliardi). In questo elenco figurano anche due istituti italiani: al decimo posto, con 6,6 miliardi di dollari, c’è Unicredit seguita al diciassettesimo posto da Intesa Sanpaolo con 1,6 miliardi di dollari.

“L’incapacità di ritenere le imprese e le istituzioni finanziarie responsabili della complicità nei crimini internazionali, compresi quelli legati agli insediamenti, sta alimentando il perdurare e il deteriorarsi della situazione sul terreno, rafforzando l’occupazione illegale, l’annessione e la colonizzazione della Palestina da parte di Israele”, denuncia Susan Power, responsabile ricerca legale e advocacy di Al-Haq, l’organizzazione palestinese che fa parte dell’International federation for human rights.

Tutte le 51 aziende prese in esame dalla coalizione sono coinvolte in una o più delle “attività elencate che suscitano particolari preoccupazioni in tema diritti umani”, che costituiscono la base per l’inclusione nella banca dati delle Nazioni Unite delle imprese commerciali coinvolte negli insediamenti israeliani, pubblicata nel febbraio 2020 e aggiornata nel giugno 2023.

Si tratta di aziende impegnate in un’ampia gamma di attività che va dalla fornitura di strumenti e materiali per la costruzione e l’espansione degli insediamenti o la demolizione di abitazioni e proprietà palestinesi (come la società di costruzioni israeliana Ashtrom e la statunitense Caterpillar) alla vendita di tecnologie per la sorveglianza e l’identificazione lungo il muro e ai checkpoint. Fino a piattaforme come Airbnb e Booking che permettono ai turisti di tutto il mondo di prenotare il proprio soggiorno per una vacanza nelle città occupate.

A fronte di un volume d’affari impressionante, il report comunque evidenzia alcuni casi particolarmente significativi di aziende e istituzioni finanziarie europee che hanno scelto di disinvestire dagli insediamenti israeliani o di interrompere la loro collaborazione. È il caso, ad esempio, di G4S la più grande società privata di sicurezza al mondo (una realtà contestata da diverse Ong per la gestione dei centri di detenzione per migranti e richiedenti asilo nel Regno Unito) che a maggio 2023 ha annunciato l’intenzione di voler interrompere la sua ultima attività in collaborazione con il governo israeliano. “L’azienda -si legge nel report– aveva fornito servizi e attrezzature di sicurezza a insediamenti illegali, posti di blocco militari e prigioni. Al momento in cui scriviamo, la vendita è in attesa dell’approvazione del governo israeliano e delle banche che avevano originariamente finanziato il progetto”.

Un’altra notizia positiva è rappresentata dalla decisione del fondo pensione norvegese Kommunal Landspensjonskasse (Klp) del luglio 2021 di disinvestire da 16 compagnie collegate a questo tipo di attività. Nello stesso anno anche il Fondo pensione governativo della Norvegia ha escluso complessivamente tre società dai suoi investimenti a causa del “rischio inaccettabile che le società contribuiscano a violazioni sistematiche dei diritti degli individui in situazioni di guerra o conflitto […] sulla base delle attività delle società associate agli insediamenti israeliani in Cisgiordania”.

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