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Cultura e scienza / Intervista

Il romanzo che indaga l’abisso e lo squarcio della “camicia nera” più spietata di Trieste

Piazza Unità a Trieste il 18 settembre 1938, in occasione del discorso di Benito Mussolini in cui vennero annunciate le leggi razziali © Wikipedia

Nelle pagine di “Bambino”, com’era conosciuto il fascista Mattia Gregori, lo scrittore Marco Balzano individua chi il male lo ha fatto e chi lo ha subito, e indaga il rapporto con i sentimenti in un uomo che ha sbagliato. Dentro una spirale di drammi personali che poi si fanno storia collettiva. Sfidando la letteratura a farsene interprete, senza appropriazioni indebite

Mattia Gregori, conosciuto come “Bambino”, è stato la “camicia nera” più spietata di Trieste ed è il protagonista del nuovo libro di Marco Balzano, “Bambino”, appunto, pubblicato da Einaudi.

Quando lo incontriamo, nella prima pagina del romanzo, sappiamo subito come andrà a finire la sua vita: mentre beve un caffè al bancone del bar, qualcuno lo chiama, lui si gira ma sente la canna di una pistola puntata contro la schiena. La guerra a quel punto è finita ma la società resta pervasa da tutto il male che ha caratterizzato le relazioni a partire dai primi anni Venti.

Marco Balzano, il suo romanzo è la storia di un fascista a Trieste, a cavallo di quasi cinquant’anni, ed è narrata assumendo il suo punto di vista. Una scelta coraggiosa. Qual è il motivo di questa decisione e perché in questo momento?
MB Ho iniziato a lavorarci tre anni fa e anche allora i venti della politica che soffiavano non erano così dissimili da quelli presenti, che si sono fatti ora più pungenti e non solo in Italia. Quello che mi interessava fare erano due cose: la prima era superare un modo di fare per cui spesso parliamo del male in modo troppo generico e senza nome, il male della storia, il male che c’è in ognuno di noi, mentre in alcuni contesti storici è possibile individuare chi il male lo ha fatto e chi lo ha subito. Le camicie nere sono tra coloro che l’hanno fatto e questo non può essere negato; da qui, il secondo tema, indagare che tipo di rapporto con i sentimenti -con l’amore, con la morte, nelle relazioni umane- continua a pulsare in un uomo che ha sbagliato. È un tema che mi interessa molto: ho insegnato in carcere tanti anni e nel mio percorso di scrittore ho sempre e soltanto abbracciato il punto di vista delle vittime. Provare a stare dall’altra parte apre squarci interessanti.

Tra i conflitti che trasformano Mattia Gregori nel “Bambino” che dà il titolo al libro c’è un dramma intimo. Sua mamma non è la moglie del padre, non è la donna che l’ha cresciuto. È probabilmente una donna slovena: che messaggio vuole dare di fronte a confini sempre più netti, in un territorio da sempre ponte tra l’Italia e l’Europa dell’Est.
MB Trieste è la città che più di tutte in Europa dimostra come un luogo di confine, in assenza di dittature e guerre, diventi un crogiuolo di civiltà e culture. Erano molto forti le comunità slovene, croate, ebree, italiane, ungheresi. Ma in questa città, e così a Gaza o in Ucraina, quando arriva la dittatura e la guerra si segnano i confini con il sangue dell’altro, e così questi diventano posti di grande violenza. Il fascismo nasce sui confini e lì mostra il suo volto peggiore. Già nel libro “Resto qui” avevo indagato il confine altoatesino. A Trieste il fascismo inizia anzitempo e si muove subito su base etnica e razzista, senza aspettare le leggi razziali del 1938, che Benito Mussolini firmò proprio a Trieste, la città più fascista d’Italia. I romanzi per me sono delle grandi metafore, non si esauriscono nei loro fatti specifici, per avere credibilità devono raccontarli.

L’ultimo messaggio di Mattia Gregori è contro ogni violenza. Lo “matura” vivendo la guerra in Albania, quindi la deportazione in un campo di lavoro. “Bambino” è cambiato?
MB “Bambino” ha certamente un’evoluzione, che però non può concludersi con i toni della favola e della commedia, perché sarebbe stato il peggior modo di trattare la storia e il lettore. Senz’altro si rende conto che il male, quando si inizia ad agirlo, è come una spirale da cui è difficile uscire. Anche se lui intravede spiragli, quand’è capo-manipolo in Albania o quando si innamora di Gigliola, quando non è più libero neanche di portare il suo nome e vive a contatto con la natura. Le sue ultime parole ricordano che dove non c’è giustizia necessariamente avremo a che fare con la vendetta: in Italia si è dato vita così a quel “fascismo eterno” di cui parlava Umberto Eco. La giustizia è uno dei vertici dell’umanità, la vendetta uno degli abissi. La storia di Trieste racconta l’abisso, anche quello delle foibe, della vendetta, evidenziando il bisogno di una profonda giustizia, che è l’unica condizione in base a cui possiamo interrogare la storia su qualsiasi cosa, per farcene educare.

Nel suo libro, basato su ricerche storiografiche, le persone muoiono nelle foibe: perché ha scelto di tenere dentro un tema tanto controverso per l’appropriazione culturale che un’area politica ne sta facendo?
MB Sono appena sette-otto pagine quelle in cui parlo di foibe, e nello scriverle non ho voluto indugiare sugli episodi più noti, quelli usati per stigmatizzare una vicenda complessa. Non potevo però evitare il tema e così l’ho reso in pagine “allucinate”, che aiutano Mattia Gregori a capire che chi fa male prima o poi incontra qualcuno che ne fa più di lui. Ne ho parlato proprio perché è un tema così controverso per la grande appropriazione indebita che ne fa la propaganda di una parte politica e l’uso pubblico che si è fatto della storia. A me piace utilizzare la letteratura per indagare ciò che la politica, la cultura di massa e addirittura scuola e università spesso silenziano. Credo che il lavoro di noi scrittori possa essere molto utile in questo senso, a partire dalle vicende di singoli individui che attraversano e sono attraversati da una cornice. Bisogna avere il coraggio di rischiare, studiando, andando sui luoghi, e poi facendo primeggiare come sempre l’elemento umano, perché il rapporto tra lettore e romanzo dev’essere un piacere e le pagine devono correre, quasi che non ci si accorga di leggere e imparare.

La delazione è uno dei temi portanti del suo libro. La mancanza di fiducia nell’altro è uno dei grandi rischi degli Stati di polizia. Quali sono, se esistono, possibili antidoti a questa condizione che rischia di diventare “endemica” anche nella nostra società?
MB Non so se delazione e tradimento rischino di diventare sistematici, non sono pessimista. Mattia Gregori è delatore perché è dentro a una spirale da cui non riesce a uscire. Non riesce a fare il bene, perché ha accumulato il male e ha fatto terra bruciata intorno a sé. Lo fa per paura, per bisogno di sopravvivere. A me interessava costruire questo personaggio che non arrivasse alle camicie nere con una coscienza politica: ha bisogno del branco per ritrovare sua madre, è debole e come tutte le persone con un trauma o un disagio e cerca qualcuno che lo protegga e lo aiuti. Ma quando ti aggreghi alla comunità sbagliata, il male lo inizi a fare anche tu. E da quella condizione è molto difficile tornare indietro.

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