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Ambiente / Approfondimento

Il processo di rinaturalizzazione del fiume Po è a rischio

© piermario-eva - Unsplash

L’Italia ha destinato 357 milioni di euro del Pnrr a interventi lungo il grande fiume per ripristinarne la biodiversità. Ma il progetto ha incontrato fin da subito l’opposizione di una parte del mondo agricolo (Coldiretti in primis) che punta invece su nuovi bacini artificiali. Una visione dannosa e anacronistica, spiega Andrea Goltara del Cirf

Mentre gli altri Paesi europei stanno progettando e mettendo in atto strategie per ripristinare la naturalità dei propri principali corsi d’acqua, in Italia l’unico grande progetto avviato sta incontrando le opposizioni degli agricoltori e dei loro rappresentanti di categoria. Il tutto nonostante il nostro Paese abbia destinato, attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), 357 milioni di euro per la realizzazione di 56 interventi da effettuare lungo il Po entro il 2026.

“In Italia non solo si sta tentando di bloccare questo importante progetto -spiega ad Altreconomia Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf)-, ma stiamo persino utilizzando i fondi europei che dovrebbero essere dedicati alla transizione ecologica per la costruzione di opere artificiali come nuovi argini, sbarramenti e invasi. Anche per il Po c’è chi vorrebbe riportare in auge l’obsoleto progetto di bacinizzazione, ma trasformare il Po in una catena di laghi artificiali peggiorerebbe ulteriormente le condizioni già critiche di habitat e biodiversità, rendendo le popolazioni limitrofe ancora più esposte agli eventi estremi”. 

Il processo di rinaturalizzazione fluviale consiste nel riportare un fiume in condizioni più prossime a quelle naturali, ad esempio, rimuovendo o allontanando gli ostacoli artificiali presenti lungo il suo corso e lungo le sponde, restituendo così più spazio al fiume. È ormai ampiamente documentato che la riduzione dell’artificialità e il recupero delle dinamiche morfologiche porta a una serie di benefici. Tra questi rientrano la tutela e la promozione della biodiversità, la capacità di ridurre i danni delle alluvioni e la ricarica delle falde acquifere. Per queste ragioni in Europa interventi di rinaturalizzazione sono realizzati lungo importanti corsi d’acqua come il Rodano, il Reno, la Mosa e il Danubio.

Nel caso del Po le operazioni di rinaturalizzazione prevedono la riforestazione, la lotta alle specie alloctone invasive, la riapertura di rami secondari che vengono collegati al canale principale e altri interventi pensati per aumentare la connettività del fiume. In questo modo si permette sia alle specie animali sia ai sedimenti fluviali di potersi muovere più liberamente lungo il corso d’acqua, aumentandone la biodiversità e la resilienza alle alluvioni. 

Ma c’è chi vi si oppone, a partire da Coldiretti. Il 5 ottobre 2023, infatti, il sindacato degli agricoltori italiani aveva applaudito la scelta del Governo Meloni di rivedere il piano di rinaturalizzazione del fiume. “Dinanzi agli impatti sempre più devastanti dei cambiamenti climatici occorre abbandonare una visione sbagliata che contrappone l’agricoltura alla tutela dell’ambiente poiché sono proprio le aziende agricole a garantire il presidio ambientale, economico e sociale -si legge nella nota pubblicata da Coldiretti-. I fondi a disposizione vanno utilizzati dunque per interventi di gestione dell’acqua. Proprio per questo Coldiretti propone da anni un Piano invasi che metta in sicurezza il Paese, garantendo acqua ed energia a cittadini e imprese”. Una posizione sostenuta anche da Confagricoltura, che nel settembre dello scorso anno ha inviato ai ministeri competenti una nota dove evidenzia presunte criticità del progetto e chiede una maggiore tutela per gli agricoltori. Al centro del dibattito ci sono le coltivazioni di pioppi lungo il Po che secondo i rappresentanti di categoria sarebbero minacciate dalla rinaturalizzazione. Per Coldiretti e Confagricoltura, infatti, il piano prevederebbe la “revoca di concessioni in atto e l’esproprio di aree a pioppeto in proprietà o in gestione per più di settemila ettari lungo il fiume Po”. 

Secondo il Cirf la realtà è ben diversa: gli interventi previsti dal progetto, infatti, riguardano il ripristino di vegetazione forestale e di forme fluviali per poco più di 1.700 ettari, ma di questi solo il 10%, meno di 200 ettari, è costituito da terreni coltivati. La maggior parte delle aree interessate sono in prevalenza tratti di alveo, opere spondali e terreni incolti. Secondo Goltara si tratterebbe, quindi, di un attacco miope e strumentale che punta a bloccare il processo ignorando come gli stessi agricoltori siano dipendenti dalla biodiversità e dai servizi ecosistemici forniti dai fiumi. “Gli attuali rappresentanti di categoria, facendo la guerra a queste misure di adattamento, stanno dimostrando la loro drammatica inadeguatezza di fronte alle sfide del cambiamento climatico e stanno danneggiando in primo luogo gli imprenditori che dicono di rappresentare -ribadisce Goltara-. È inutile costruire altri invasi e bacini lungo i fiumi se poi non avremo le risorse idriche per riempirli, come sta succedendo ad esempio in Spagna. Purtroppo, non esiste un vero dibattito sull’argomento perché i rappresentanti del mondo agricolo si chiudono in posizioni difensive verso qualunque posizione percepita come ‘ambientalista’, basti pensare alla loro opposizione alla proposta di Nature restoration law europea”. 

Eppure in Italia ci sarebbe bisogno più che mai di un processo di rinaturalizzazione dei fiumi e di tutela delle aree umide. A partire dagli anni Cinquanta i principali fiumi italiani, tra cui il Po, sono stati sottoposti a processi di restringimento (perdendo più della metà della superficie dei loro alvei, con punte pari al 90%) e di incisione degli alvei che ne hanno cambiato drasticamente la morfologia. Tali interventi hanno portato a una banalizzazione del sistema fluviale diminuendo i servizi ecosistemici che fornisce e la sua capacità di garantire protezione dalle alluvioni. In parallelo si è assistito a un processo di antropizzazione delle aree adiacenti ai fiumi che sono state occupate da attività agricole e da centri urbani e poli industriali. Questo ha ridotto la capacità di laminazione delle piene e determinato un incremento del rischio geo-idrologico, nonostante la costruzione di opere di difesa dalle alluvioni, perché sempre più elementi vulnerabili hanno occupato aree che possono essere inondate o interessate dalla dinamica morfologica. Proprio per questo l’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po ha dichiarato che “il progetto di Rinaturazione del fiume Po assume un ruolo straordinariamente strategico per gli equilibri morfologici ed ecologico-ambientali dell’area interessata dal corso d’acqua più lungo d’Italia e insieme agli interventi di difesa idraulica rappresenta una delle misure più importanti della pianificazione distrettuale attuativa delle Direttive comunitarie acque (Direttiva 2000/60/CE) e alluvioni (Direttiva 2007/60/CE)”. 

Anche la recente “Nature restoration law” incentiva la rinaturazione del fiume. La legge, a cui manca solo il voto del Parlamento europeo, pianificato a fine febbraio, prevede il ripristino del 20% delle aree terrestri e marittime. Si tratta quindi di una grande occasione per l’Italia per promuovere la protezione della biodiversità e l’adattamento ai cambiamenti climatici. “La rinaturazione del Po riveste un ruolo chiave per affrontare i futuri cambiamenti climatici che porteranno a una maggiore siccità su larga scala ma aumenteranno anche le inondazioni in contesti locali -conclude Goltara-, ma le operazioni previste sono solo un primo passo. Servono interventi più ambiziosi e non dobbiamo limitarci a intervenire sul Po ma anche estendere le azioni ad altri fiumi e aree umide”. 

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