Diritti / Attualità
Il muro della Bulgaria. Un altro ostacolo europeo ai diritti dei migranti
La Commissione europea ha messo a disposizione 600 milioni di euro per sostenere gli Stati membri nelle attività di contrasto ai flussi delle persone. Sofia, tra i primi destinatari dei finanziamenti, punta a rafforzare la barriera di 130 chilometri con la Turchia. Mentre Ong e volontari internazionali denunciano gravi violazioni e abusi
Il 3 aprile di quest’anno i cittadini bulgari sono stati chiamati alle urne. Ad avere la maggioranza (risicata) è stato il partito Gerb guidato da Bojko Borisov. Il gruppo conservatore non ha stravinto e si preannuncia dunque un difficile periodo di transizione alla ricerca di alleanze per poter formare un nuovo governo. Borisov è già stato per tre volte a capo dell’esecutivo e durante i suoi mandati si è distinto per una linea molto dura in tema di immigrazione.
Una linea mantenuta anche dall’attuale presidente, Rumen Radev, eletto per la prima volta nel 2017 grazie al sostegno del Partito socialista. A febbraio di quest’anno Radev ha chiesto all’Unione europea fondi per finanziare il rafforzamento della barriera lunga 130 chilometri che divide il Paese dalla Turchia. La richiesta per il “muro” è pervenuta nonostante la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, già a ottobre avesse affermato, non senza ipocrisie, che l’Ue non avrebbe mai finanziato la costruzione di muri e di filo spinato per impedire l’attraversamento dei migranti.
Pochi mesi dopo però, in apertura dell’ultimo Consiglio europeo, è stata diramata una lettera (diffusa da Statewatch) nella quale è stato annunciato lo stanziamento di 600 milioni di euro per supportare “in modo sostanziale gli Stati membri nel controllo delle frontiere”, con particolare riferimento a quelle “esterne” della Turchia e quelle “interne” della Bulgaria, che riceveranno per prime tali fondi. Il budget sarà speso per finanziare sistemi di sorveglianza quali telecamere termiche, droni e radar grazie ai quali la polizia di frontiera potrà sorvegliare ogni movimento sospetto ai confini.
Questa decisione, presa per rafforzare il controllo delle frontiere, interviene nonostante le criticità espresse da Ong e operatori locali nei confronti della gestione dell’immigrazione da parte delle autorità bulgare. A ottobre dello scorso anno un ragazzo siriano è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia di frontiera bulgara mentre tentava di attraversare il confine dalla Turchia. L’uomo è sopravvissuto nonostante i proiettili lo abbiano raggiunto al petto e alla mano, lasciandogli quest’ultima semi-paralizzata. E non era la prima volta che accadeva: sulla stessa frontiera nel 2015 un cittadino afghano è morto dopo gli spari esplosi da una guardia bulgara.
Episodi del genere vengono confermati ripetutamente dalle testimonianze che i migranti rilasciano alle organizzazioni internazionali come Medici senza frontiere che in suo recente report ha raccolto le voci di chi è transitato in Bulgaria. C’è chi è stato picchiato ripetutamente con tubi di gomma da parte delle autorità, donne che hanno subito dalle stesse violenze sessuali, persone private di ogni bene e costrette a tornare in Turchia senza vestiti, sulla neve. Un uso della violenza spropositato, in barba a qualsiasi norma sui diritti umani, che viene denunciato anche da No name kitchen (Nnk), Ong spagnola e internazionale che opera sulle rotte balcaniche.
Una delle testimonianze raccolte da Nnk recita: “La polizia bulgara ci ha attaccati con un cane che ha morso un mio amico alle gambe, alle mani e alla testa. Dopo ci hanno tolto tutti i vestiti, anche alle donne che erano con noi, e ci hanno spediti indietro in Turchia. I colpi che ci hanno inferto hanno rotto gambe e braccia ad alcune persone che poi non sono riuscite a proseguire il cammino per mesi e mesi”.
Barbara Bécares, responsabile stampa della stessa Ong, spiega come tra 2018 e 2019 moltissimi migranti abbiano preferito passare per la Grecia a causa della nota violenza e dei trattamenti disumani perpetrati dalla polizia bulgara. Una polizia europea. Ma questa rotta è tornata in auge proprio dal 2020, quando anche in Grecia le autorità si sono macchiate di simili comportamenti rendendo il passaggio per il Paese altrettanto difficile e pericoloso. Le testimonianze che giungono sono da considerarsi come una piccola parte rispetto al totale di coloro che subiscono gli stessi trattamenti e che magari preferiscono non parlare per paura di ritorsioni. In Bulgaria la criminalizzazione delle organizzazioni non governative impedisce ai migranti di poter chiedere aiuto e denunciare gli abusi che subiscono. Chi riesce a varcare il confine dalla Turchia senza essere stanato, tenta di mantenere un profilo basso in attesa di oltrepassare la frontiera per la Serbia. Molti sanno che se vengono intercettati dalle autorità rischiano di essere respinti in Turchia o di finire all’interno di campi di detenzione. Un’inchiesta realizzata dal collettivo Lighthouse Reports denuncia l’esistenza di centri di detenzione illegali: vere e proprie gabbie nei pressi della stazione di polizia di Sredets (città a 40 chilometri dal confine turco) dove i migranti vengono rinchiusi anche per giorni. “La struttura assomiglia a una cuccia per cani in disuso, con sbarre su un lato -si legge nell’inchiesta-. I richiedenti asilo l’hanno descritta come una ‘gabbia’”.
Gli abusi che vengono perpetrati quotidianamente a richiedenti asilo e migranti nel Paese sono ormai più che noti. A ciò si somma una sistematica negligenza nell’esame delle richieste d’asilo: molti richiedenti hanno denunciato di attendere una risposta alla propria domanda da anni.
Tra questi c’è anche Khalid, un uomo eritreo che raggiunto telefonicamente ci ha raccontato la sua storia. È scappato dall’Eritrea nel lontano 2012. Arrivato in Turchia ha tentato di raggiungere la Grecia attraversando il confine dal fiume Evros ma per tre volte è stato respinto dalla polizia ellenica. Ha deciso dunque di cambiare frontiera e a marzo 2013 è riuscito ad arrivare in Bulgaria e da qui è cominciato quello che lui stesso definisce “un incubo”, non ancora finito. Dapprima è stato rinchiuso per tre mesi in un centro di detenzione a Lyubimets, una piccola cittadina non lontana dal confine turco. Le condizioni all’interno del centro sono descritte come degradanti: “Era un edificio di tre piani nelle quali venivano stipate migliaia di persone. Al piano inferiore c’erano le donne e le famiglie con bambini e a quello superiori gli uomini. Era sovraffollato e non veniva rispettata nessuna regola da parte delle autorità”.
Poi è stato trasferito in un campo profughi vicino la capitale bulgara dove gli sono state prese le impronte digitali e dove ha richiesto la protezione internazionale. Non avendo ricevuto alcuna risposta, dopo sette mesi ha dunque deciso di scappare e di andare in Grecia, dove è stato rinchiuso all’interno di un altro centro. Qui ha trascorso altri sette mesi e dopo il suo rilascio ha iniziato un lungo viaggio che lo avrebbe poi portato fino in Svezia. Siamo nel 2016. Nel Paese scandinavo ha tentato di chiedere nuovamente asilo ma la sua domanda è stata respinta in base al Regolamento di Dublino ed è stato quindi trasferito in maniera coatta proprio in Bulgaria, dove è rimasto per altri tre anni. Dopo un anno e mezzo gli è stata notificata la prima risposta alla richiesta d’asilo: negativa. Ad aprile 2018 Khalid ha fatto appello alla Corte suprema bulgara. Ma tutto si è rivelato un buco nell’acqua. Senza alcun riscontro ed esasperato per l’attesa, ha deciso di ripercorrere l’intera rotta balcanica fino alla Slovenia, dove è giunto nel 2019 e dove ha ripresentato la domanda d’asilo. Dopo un anno gli è stato notificato l’ennesimo esito negativo e a quel punto, pur di non essere deportato nuovamente, ha deciso di andare in Francia, passando per l’Italia.
Ed è proprio da un centro per richiedenti asilo di Parigi che ora racconta la sua storia. A metà aprile avrà il suo primo colloquio negli uffici per l’immigrazione ma è già stato avvisato che, tra le opzioni possibili, c’è anche quella di essere riportato in Slovenia e da lì in Bulgaria. Quando gli si chiede che cosa pensa di fare, dice che probabilmente non andrà all’appuntamento. “Preferisco rimettermi in viaggio per il Belgio o tenterò di attraversare il canale della Manica per raggiungere l’Inghilterra”. Nel 2012, quando fuggì dalla sua Asmara, aveva 33 anni.
© riproduzione riservata